Sirica uscì ed entrò la Minardi esclamando:
“Guardi qui, è un vero e proprio libro, ci sono le interviste di molti bambini del quartiere.”
Porse al commissario un piccolo libro dal titolo I nonni raccontano, sulla copertina c’era una foto delle truppe alleate che entravano in città.
“Perfetto – disse il commissario – cominciamo dalla storia del falegname e poi magari leggiamo anche le altre. Si accomodi, ispettrice, cominci lei a leggere ad alta voce, quando si stanca leggo io.” E si sprofondò più comodamente nella poltrona.
Con voce chiara e sicura Ester Minardi lesse:
“Intervista a Michele R. 84 anni, raccolta dal nipote Rispo Nicola, classe IV C.
Quanti anni avevi durante la guerra?
Ero un ragazzo, avevo 14/15 anni.
Andavi a scuola?
Si, frequentavo il primo anno dell’istituto tecnico e fino ad un certo punto le scuole funzionarono, poi quando i bombardamenti si fecero più frequenti e violenti le scuole si chiusero e allora aiutavo mio padre nella bottega e così poi non ci tornai più a scuola e ho continuato il lavoro di falegname sempre nella stessa bottega che ora ha mio figlio.
Cosa ti ricordi di più della guerra?
La fame e la paura.
Cosa mangiavate?
Quello che si trovava, nessuno faceva capricci, mica come voi oggi… a dire il vero io forse avevo sempre fame per l’età, mia madre mi sgridava, diceva ringrazia il cielo che noi almeno un piatto a tavola lo mettiamo ogni giorno, tanta gente non ha veramente niente. Mia madre era molto generosa, ogni giorno a tavola c’era qualche bambino del vicinato che a casa sua non avrebbe mangiato.
Di cosa avevi paura?
Dei bombardamenti. Tu non te lo puoi immaginare il terrore a sentire suonare l’allarme. Gli americani bombardavano come se la volessero radere al suolo questa città. Quando sentivamo l’allarme tutto il vicolo veniva a rifugiarsi nel ricovero che stava sotto la nostra bottega, urla, spintoni sapessi la confusione! Mia madre poi impazziva completamente, gli altri ragazzi nel ricovero quasi si divertivano ma noi dovevamo stare tutti attaccati a lei a dire il rosario e non ti dico se per caso mio padre stava da qualche altra parte per un lavoro, in quel caso restava immobile come una pietra finché non lo vedeva tornare, allora cominciava a piangere e iniziava una serie infinita di litanie. Ma per fortuna non ci è mai successo niente.
Hai visto molta gente morire?
A dire la verità, morire proprio no. Feriti sì, molti soprattutto quando cacciammo i Tedeschi, quella volta mia madre non riuscì a fermarci, io e i miei fratelli andammo a Santa Teresa dove c’era la barricata, lì un mio amico perse una gamba ma è ancora vivo e vegeto. Solo una volta ho visto una donna morta, questo è un brutto ricordo: uscendo dal ricovero, proprio fuori alla bottega c’era questa donna morta con tutto sangue e olio intorno, perché si era rotta una bottiglia che aveva con sé. Veramente la bomba era caduta in un giardino un po’ distante ma dissero che era stato lo spostamento d’aria, pare che ci fosse anche una bambina, c’era un sacco di gente che discuteva ma quella era una di quelle volte che papà non era con noi e mia madre ci fece salire subito a casa e quindi non so bene il fatto come è andato.
Come erano con voi i Tedeschi?
Mio padre ci lavorava con i Tedeschi, diceva che erano esigenti ma pagavano bene. Questo prima dell’otto settembre, poi diventarono cattivi, arrestavano tutti gli uomini e li deportavano, mio padre e mio fratello più grande si dovettero nascondere proprio in fondo alle grotte del ricovero. Mia madre lo odiava quel ricovero, appena finì la guerra costrinse mio padre a murare l’ingresso, papà non voleva perché ci teneva il legno ma non ci fu niente da fare.”
“Almeno questo ora lo sappiamo, intendo chi ha murato… ma che succede, cos’è questo schiamazzo?” chiese il commissario, mentre Landolfi e Sirica irrompevano nell’ufficio tenendo per i gomiti una donna che piangendo rumorosamente cercava di scrollarseli di dosso, li seguiva Giuseppe Rispo che urlava:
“Lasciate stare mia moglie, lei non c’entra niente, se dice che l’ha trovata vuol dire che l’ha trovata!”
(8.continua)