Dici calcio, e in questo tempo d’estate che scorre tra voci di mercato e arrembanti sogni di vittorie, ti fai prendere dalla domanda: la volontà prevale sull’intelletto? Ovvero, dietro la vittoria di un grande club la capacità del singolo è più determinante rispetto al valore di un allenatore? Di qui un ulteriore interrogativo: e se in panchina ci mando un filosofo?
Sembrano idee balsane eppure sono al centro di un bel libro di Elio Matassi, appassionato di calcio e di filosofia, direttore del Dipartimento di Filosofia all’Università Roma Tre (dove in segna Filosofia morale), autore di “Pensare il calcio” (Il Ramo Editore).
Sembrano idee balsane eppure sono ormai patrimonio condiviso dai grandi club, altrimenti perché affannarsi tanto alla ricerca di gente come Guardiola (Bayern), Mourinho (Chelsea), Ancelotti (Real Madrid), Benitez (Napoli), Garcia (Roma)?
Se dunque si parte da qui ecco che la riflessione si fa un po’ meno peregrina e leggera di quanto non sembri. E l’intero gioco del calcio si trasforma in un manuale di filosofia in cui sì, vale la pena dire: mandiamoci un filosofo in panchina. Mettendo da parte i dubbi e i sospetti che hanno accompagnato un vecchio mago del pallone come Zeman, sempre prodigo di gol (fatti e subiti), ma mai vincente.
Con Matassi sembra di vederlo lo stadio pieno, raffigurato come l’isola di Elias Canetti. Le squadre fanno il loro ingresso in campo. Ad accomodarsi in panchina eccoli i filosofi Mourinho e Sacchi. Da una parte il Mou, che ha sempre ripetuto: “Chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio”. Ecco il suo viso arcigno e il suo occhio arguto: nella testa la consapevolezza che le motivazioni di una squadra sono largamente superiori alla bontà degli schemi di gioco, qualcosa che sa tanto del primato metafisico in Hegel. Dall’altra parte c’è Sacchi: quante volte ha dovuto rispondere, a chi denigrava il ruolo dell’allenatore, che in fondo anche Leibnitz si era posto il quesito se la totalità funzioni meglio quando è autosufficiente o quando è eterodiretta.
E poi in mezzo al campo lui, il fantasista, la cui individualità, sostiene Matassi, “può cercare soddisfacente interpretazione nel rapporto tra genialità e norma” così come Kant enunciava che “la vera creatività è quella che si fonda sulle regole”.
E poi ancora, il fischio dell’arbitro: undici contro undici, alla ricerca del gol ovvero di quella “forma-evento” irripetibile così come teorizzata da Ernst Bloch nel concetto di “tappeto musicale”.
Certo, poi, ci sono le storie delle squadra: quella dell’Inter che nasce dal Milan ed evoca i concetti di scissione, colpa e redenzione. E che dire dell’estetica del Barcellona, la
verticalità del Bayern, o volendo anche l’incapacità del calcio italiano di costruire una propria idea di gioco.
Direi una lettura proficua per chi ama la filosofia e per chi nel calcio cerca qualcosa di più profondo.
D’altro canto Matassi non è nuovo ad avventure del genere: è recente “La pausa del calcio” (stessa casa editrice, 2012).
Per saperne di più di lui vale la pena dare un’occhiata a questo suo intervento televisivo mandato in onda dalla Rai con Dribbling nell’ottobre 2012.
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