“Sciocchezze! E allora che interesse ci sarebbe a governare…” esclamò il Gran Siniscalco con sincero stupore.
“Ecco, caro Antenato, questa è la differenza tra te e me, tu gestivi la cosa pubblica come un bene tuo personale, senza alcuna attenzione al bene dello Stato e del popolo…”
“Lo stato, che cosa è lo stato? lo stato siamo noi che governiamo le terre e i beni….quanto al popolo, la plebaglia vorrai dire, la plebe meno ha e meglio è, mi bastava una festa di piazza, la distribuzione di qualcosa e quelli ci adoravano me e la mia Giovanna. Sapessi che tripudio che entusiasmo quando passavamo nelle vie di Napoli…per il resto al popolo non interessa quello che fai, lo sanno che ci sta la plebe e la nobiltà e ognuno deve stare al suo posto.”
“Che non siamo nati tutti uguali è una verità, ma chi è nato in alto ha il dovere di difendere chi sta in basso, provvedere al suo benessere fisico e morale. La tua idea del potere porta ad aberrazioni inaudite e alla fine all’ autodistruzione. Così è finito il grande impero spagnolo. Io ho visto delle cose terribili in Perù, poveri indiani sfiniti a morte nelle miniere d’argento del Potosì per l’ingordigia dei conquistatori resi bestie dalla brama di ricchezze. Ogni pietà umana era morta, il senso dell’onore calpestato da una corruzione così profonda da diventare regola indiscussa. Che si sottraessero introiti enormi alle casse regie non veniva nemmeno più considerata cosa disonesta, perché era proprio il concetto di onestà ad essere stato cancellato. Tutto era in vendita, ma alla corona oramai arrivava ben poco, tutto finiva nelle mani di gente volgare e senza scrupoli. Venni mandato lì proprio per cercare di mettere ordine in una situazione fuori controllo, ma riuscii a fare ben poco… le mie proposte erano sì accettate dal re ma poi regolarmente bloccate dal Consiglio delle Indie manovrato da chi aveva interessi personali laggiù. Venni perfino sottoposto ad un processo accusato di indiofilia e negrofilia perché avevo proposto l’abolizione del lavoro coatto, la mita come lo chiamavano gli Indios. Solo che al tempo degli Inca, la mita era leggera, tutti lavoravano, anche i bambini che avevano compiti adatti a loro, come scacciare gli uccelli dai campi. Ma poi in cambio ricevevano tutto quello di cui avevano bisogno, dal cibo agli abiti, era una società mirabilmente organizzata, nessuno era lasciato solo nemmeno i vecchi e le vedove; anzi nella distribuzione del raccolto si provvedeva prima alla popolazione e quello che restava veniva dato all’Inca che ne custodiva una gran parte nei magazzini reali per la popolazione in caso di carestia. Con questo sistema della mita gli Indios avevano costruito grandi opere, un sistema di strade e di ponti che lasciò stupiti i conquistadores, palazzi monumentali, tessuti stupendi…. tutto questo è stato distrutto e la mita è diventata nelle nostre mani un genocidio. Gli Indios furono costretti a lasciare a centinaia i loro villaggi per andare a scavare l’argento per noi , partivano salutati come si salutano i morti perché lo sapevano che dopo un anno di mita nelle miniere del Potosì quasi nessuno sarebbe tornato.
Io proposi l’abolizione di questa vergogna ed il sovrano disse di sì ma poi quello che riuscì a fare fu solo un decreto per migliorare le condizioni degli Indios, cosa del tutto inutile tanto lo sapevano tutti che nessuno lo avrebbe rispettato, la Spagna era così lontana. Quello che sostenni in mia difesa al processo era che questa distruzione di massa della popolazione locale era contraria agli interessi della corona e degli stessi imprenditori spagnoli perché presto si sarebbero trovati senza manodopera, senza un mercato dove vedere i loro prodotti…uscii dal processo a testa alta, ma questo non cambiò la situazione ed il declino delle colonie continuò inarrestabile portando con se la fine della grande Spagna.”
“Ma lo vedete, – intervenne con foga l’ammiraglio – a distanza di secoli la storia si ripete, il vostro mondo non è stato distrutto da nemici stranieri ma da un male interno, fatto di cieco egoismo, nessun interesse per il bene comune, nessuna lungimiranza, era lo stesso ai miei tempi, alla corte dei Borboni. Anzi peggio, se io passai alla repubblica fu prima di tutto per un disgusto quasi fisico per quello che avevo visto a corte, lì a Palermo dove i nostri sacri sovrani erano eroicamente fuggiti davanti al nemico, lasciando al popolo il compito di difendere la capitale del regno. Del resto che il re fosse un inetto già lo sapevo. Ero quasi un ragazzo quando presi servizio nella squadra navale dell’ordine di Malta, nei due anni che trascorsi lì ebbi modo di osservare molto. Malta, pur rientrando nella sovranità di Napoli era stata concessa da Carlo V all’Ordine dei Gerosolomitani…”
(4.continua)