I

La prima goccia di pioggia batte sul vetro, rimane un attimo in sospensione poi incomincia a scendere, non segue la linea retta imposta dalla gravità, perché impalpabili granelli di polvere ed invisibili macchie di unto la deviano costringendola ad una lunga diagonale. Così la seconda che traccia una linea curva, prima e precipita in verticale dopo, e la terza che sceglie linee più complicate ad angoli contrapposti, poi ancora un’altra che urta prima sul legno dell’imposta, si divide in dieci goccioline più piccole che restano immobili sul vetro finché vengono raggiunte da strisce d’acqua che non appena le sfiorano hanno uno scatto, deviano ad angolo su di loro le inglobano e corrono verso il basso ancora più veloci. Altre gocce formano sentieri d’acqua che si catturano a vicenda formando rivoli sempre più grossi. Il vetro è tutto rigato di strisce d’acqua e per Tommaso che lo guarda dal lato asciutto sarebbe fin troppo facile paragonare il percorso delle gocce ai destini differenti della vita, ma la sua mente non segue questo invito è di nuovo presa dal suo antico dilemma: “sono normale o sono pazzo?”.

Le gocce che battono violente sul vetro gli sembrano, piuttosto, gli eventi improvvisi che la vita gli ha gettato addosso e che lo hanno segnato e forse anche costretto a seguire percorsi non scelti. Ancora una volta avverte quel senso di estraneità che si spinge fino all’idea di inesistenza.

Da sempre è accompagnato da questa sensazione, nasce all’improvviso anche senza una ragione particolare di disagio o difficoltà, gli esplode dentro a volte proprio nei momenti di pausa, una sensazione mista di malinconia e desiderio di essere altrove, bisogno di leggerezza e rifiuto dei propri doveri, esserci in questa vita, ma non farne parte, essere materialmente calato in un ambiente, ma non riconoscerlo come il proprio.

“L’orchidea che ho sulla mensola – intuisce Tommaso – forse avverte la mia stessa sensazione, lei nata per i climi tropicali umidi tenuta in questa città fredda continentale, si sentirà  persa lontano dai suoi simili, i suoi odori, i suoi rumori, come me che batto un ritmo che non mi appartiene. Si, farò un pacco con l’orchidea e lo spedirò ad un indirizzo sconosciuto purché sia nel tropico, Costa Rica, San Salvador oppure Guatemala. Che cosa potrà accaderle? la cureranno? andrà tutto bene? credo di si, però potrei scrivere due righe per chiedere al destinatario sconosciuto di liberarla, si, lasciarla nella foresta umida, poggiarla sul ramo alto di un albero gigantesco per offrirle la possibilità di ricominciare una nuova vita, saprà lei come fare, sarà felice ne sono sicuro, incontrerà nuove essenze, con le foglie e le radici esplorerà gli spazi familiari, rifiorirà nell’aria che le appartiene, rinascerà mille volte, si, farò così, che nome scelgo? quello di una donna o di un uomo? di origine spagnola, francese, o indigena? chi sarà il più sensibile? fa lo stesso, mi sembrano tutti uguali”.

Si alza Tommaso, prede una scatola di cartone, carta per imballaggio, spago, nastro adesivo e forbici, scrive prima la lettera che ha pensato:

“Gentile signore, le mando questa vita che soffre per un’esistenza condotta in un ambiente non proprio, confido nella sua sensibilità  per farla giungere, finalmente, fra i suoi simili, la prego pertanto di porla sul ramo più alto, dell’albero più grande, nel più profondo della foresta umida tropicale, della zona più inaccessibile del suo Paese, che lei certamente raggiungerà, la ringrazio sicuro della sua comprensione”.

Quindi fa il pacco, con cura, pieno di carta per  tener ferma la pianta e ricoperto di nastro adesivo. Per un indirizzo possibile si informerà domani  all’ufficio postale, ora sono chiusi. Si risiede dietro la finestra e ricomincia a guardare il vetro, la sua mente continua a lavorare incessante.

Il ricordo ossessivo di un giorno preciso della sua infanzia lo raggiunge ancora una volta e come sempre si rivede bambino seduto nell’armadio con le ante aperte e le gambe fuori, i pantaloni corti di un tempo e le scarpe da calzare.

“Ma io ho un corpo!” fu l’intuizione di quel mattino.

Come un colpo al cervello ed al cuore fu invaso, in quel momento, da un senso di responsabilità verso se stesso:

“ho un corpo da mandare avanti che per tutta la vita dipenderà da me”.

Il senno era arrivato, l’aveva catturato entrando nella sua mente e nella sua anima, il senso del dovere, della responsabilità, della costruzione ragionevole di una vita l’aveva raggiunto per non lasciarlo più. La ricostruzione di quel giorno continua nella mente e negli occhi di Tommaso. Doveva correre a scuola e questa volta ci sarebbe andato senza fare storie, non avrebbe ripetuto mai più quello che aveva fatto il giorno precedente costringendo il padre a riportarlo a casa: strilli, piedi puntati, la replica, insomma, del suo primo giorno di scuola quando la maestra dovette tirarlo in classe per una manica ed il padre spingerlo per le spalle fino a fargli perdere la presa sullo stipite della porta e lasciarlo sul suo primo banco con la testa calata fra la braccia poggiate sul piano di plastica nera. No, mai più, ora avvertiva il senso di colpa per non aver saputo affrontare il proprio dovere, oggi normale, ieri pazzo.

“Ma bravo Tommaso, sei orgoglioso della tua intuizione, vero? Quel giorno diventasti adulto? E’ così che hai sempre ricordato quel momento, lo so. Ma ora io ti dico che fu allora che ti mettesti da parte, indossasti la camicia, non è vero Tommaso, con il colletto con le stecche, i mille bottoni sul davanti e le cuciture che limitano i movimenti, mai alzare troppo le braccia soprattutto dopo che l’hai infilata nei pantaloni, anzi, ricordi? ti insegnarono a metterla dentro le mutande, a far passare i pizzi dai fori per le gambe. Tira, Tommaso tira bene la camicia non sia mai ti dovesse uscire dai pantaloni sulla schiena. Allora, fu allora che rinunciasti al tuo essere”.

“Vattene, che cosa sarebbe stato di me e del mio corpo se ti avessi dato ascolto? Niente ecco che cosa sarei adesso”.

“Che cosa hai nel petto Tommaso, parlami delle tue sensazioni, cerca di descrivermi questo tuo corpo, non lo senti che parla più di te, non capisci che lui è come un organo dai tanti suoni, forti, deboli, sussurrati, urlati. Lui parla attraverso il dolore, il battito, il sudore, il calore ed il brivido, messaggi Tommaso, messaggi per te, sono anni che ti sta chiedendo di decidere”.

Le gocce continuano a battere e i corsi d’acqua a scendere lungo il vetro sul quale ora Tommaso ha poggiato la fronte calda, il sonno lo prende per salvarlo dai suoi discorsi.

Mentre dorme smette di piovere ed il cielo del tardo pomeriggio appare fra le nuvole, la strada ed i piani più bassi dei palazzi si fanno scuri poi si illuminano di luci artificiali sotto un cielo ora buio che si prepara alla notte. Tommaso si sveglia ed accortosi del cambiamento di tempo capisce che è la sua ora, quella da lui più attesa, l’ora delle urla.

Inizia la “vestizione”, così ha deciso di chiamare il rituale che si è inventato per celebrare quello che crede un cedimento alla follia. Si lava e si sbarba con cura, si guarda allo specchio per scorgere eventuali imperfezioni della pelle del viso che curerebbe prontamente, poi indossa il suo pezzo forte, una  camicia in stile del seicento che si è fatto fare dal “Sarto della fantasia”, un negozietto a pochi passi da casa. L’ha voluta perché non porta bottoni è larga sia di corpo che di maniche e non ha colletto che stringe. I movimenti sono tutti consentiti “per questo – aveva pensato Tommaso – la usavano i pirati e gli spadaccini”. Sotto indossa dei pantaloni aderenti di una tuta da ginnastica ed ai piedi degli stivali di cuoio, su tutto un lungo cappotto da marinaio.

Si veste con cura e calma, poi esce, cammina lentamente ma deciso fino a raggiungere il centro della città, il luogo più frequentato, il suo palcoscenico. Qui prima a bassa voce poi, trovato il ritmo, sempre più deciso e forte comincia il repertorio di imprecazioni contro ignoti ladri, sfruttatori e corrotti, quindi maledizioni e grida, infine intona un’aria di lirica e conclude con un forte battito di mani.

Ora lentamente riprende la strada di casa, discreto non urta mai i passanti, cede il passo ad anziani e bambini, si scosta per consentire il transito della bicicletta e del carrozzino, aspetta con calma la luce verde del semaforo e quindi attraversa avendo cura di non posare i piedi sulle rotaie del tram, in metropolitana cede il posto, insomma, si comporta come se lui non fosse previsto.

Guarda le vetrine, soprattutto quelle di strumenti musicali, occhiali, pietre e orologi, chiude gli occhi davanti a quella di animali, e trattiene il respiro finché non ha oltrepassato quella del macellaio, l’impulso ancora forte proveniente da una vita di lavoro lo trattiene a guardare qualche giacca, abbina veloce con gli occhi una cravatta alla camicia e sceglie con cura un paio di scarpe, del resto è sempre stato elegante e tuttora a modo suo le è, certo non uscirebbe trasandato.

Entra in libreria, non sempre acquista un libro, non sempre acquista un disco, ma sempre ripensa a quello che ha urlato, ripete in mente le cose dette per controllare di non aver dimenticato nulla di quello che aveva stabilito di dire.

Le sue urla sembrano prive di senso, ma non è così, la cura è stata minuziosa l’ordine delle imprecazioni strettamente logico, il riferimento al pensiero, alla persona, alla cronaca, per Tommaso, sono evidenti.

Rientra in casa e cena, affiancando con cura all’oliva nera il bicchiere di vino bianco, alla foglia di insalata verde la crosta di pane marrone e all’albicocca gialla il goccio rosso del liquore alle ciliegie.

“I colori, ci sarà pure un senso se sappiamo distinguerli”.

“Certo, ma sai che il pesce si può mangiare anche crudo?”.

“Si, in città molti vanno nei ristoranti per mangiarlo, è una moda orientale, ma a me non piace”.

Chiude così il pasto e finalmente stanco va a dormire. Non chiude del tutto le imposte, ha sempre bisogno di un contatto con la luce seppure quella artificiale della città, ma è contento quando è la luna ad illuminare la camera, i rumori no quelli non li sopporta e se necessario ricorre ai tappi, quindi senza nemmeno tentare di leggere qualche rigo resta per pochi minuti supino, tanto per fantasticare ancora un po’ nella penombra della camera che domani mattina attirerà anche la gatta ad acciambellarsi nelle pieghe delle coperte create dai piedi di Tommaso che ora si gira su un fianco e si lascia catturare dal sonno.

“Va bene, ora riposa, so che non è facile sopportare il tormento del proprio essere e tu sono tanti anni, ormai decenni, che combatti. Dormi Tommaso, domani faremo un altro passo in avanti”.

 

II

Nel caffè la mattina ci vuole lo zucchero, non tantissimo, ma neanche poco, serve a renderlo meno liquido e scivoloso in modo che prima che scenda nel petto i pensieri abbiano avuto il tempo di formarsi nella mente predisposta a cogliere i segnali della nuova giornata.

La luce del sole del mattino si fonde con l’aria fragrante e tiepida ed insieme all’odore del caffè cattura i ricordi di Tommaso, si affaccia l’immagine del mare, se ne concretizza l’odore, non c’è più la città continentale e la sua cucina è diventata la casa delle villeggiature giovanili, anche i suoni sono quelli del mare e di un gozzo di legno che passa lento pieno nasse. Malinconia struggente per gli anni andati, ricorda tutta la piacevolezza del luogo e delle giornate libere, le ripercorre e ne gioisce,  poi gli torna in mente l’insofferenza degli ultimi anni quando la voglia di diventare adulto gli fece desiderare con ansia il rientro in città e maledire quei luoghi.

“Che errore. Non potevo conservarle in un cassetto, nasconderle ripiegate sotto la carta del ripiano, quelle giornate allora non volute e riprenderle ora, riaprirle nell’aria e nel tempo, ora che mi mancano?”.

Le mattine dopo la pioggia il sole passa facilmente nell’aria e le piante, che lo sanno, slanciano le foglie verso la luce sorreggendole col gambo gonfio di acqua. Anche Tommaso lo sa, per questo sorseggia il caffè senza preoccupazioni per l’umidità del terreno nei vasi sul terrazzo, oggi le piante possono fare a meno di lui, perciò è libero di ripensare agli accordi per la melodia che sta componendo, prima di stendere il testo per l’ora delle urla di questa nuova sera.

Sono parecchi anni che si esibisce nell’ora delle urla. Ne ha avuto un forte bisogno, dopo il pensionamento anticipato di pochi mesi per stato di crisi aziendale, crede lui, per non licenziarlo, sanno gli altri. Una premura dettata dal rispetto per decenni di lavoro preciso ed assiduo, ma del tutto inutile dal momento che lui non era affatto affezionato al lavoro, né gli occorreva per riempire le sue giornate che, anzi, le ha sentite sempre avare di tempo, piuttosto il lavoro per Tommaso è stato soltanto un dovere da svolgere, come un tributo dovuto alla collettività che lui ha sempre versato, almeno finché è stato del tutto responsabile.

“La vita termina nell’oblio, la meditazione attende le nostre menti, la felicità sarà di chi, nel corso del tempo, avrà costruito dentro il proprio petto la solidità dell’essere. La ragione potrà andar perduta e con essa il tatto e l’olfatto, resterà, però, la struttura immateriale del nostro vivere costruita con l’esperienza e l’intelligenza, saremo noi di fronte a noi stessi ed all’immensità del tempo a motivare la nostra esistenza e a nulla varrà l’oggetto”.

Con questo pensiero nella mente è chiaro che non lavorare non è stato un problema per Tommaso, quello che lo ha spinto ad urlare il suo pensiero alla gente è stata, piuttosto la prima interpretazione errata di un messaggio del suo senno.

“Comunicare per partecipare e così contribuire alla costruzione della vita collettiva  possibilmente avvicinandola al proprio modo di pensare pur senza sopraffare gli altri”.

Questo era il senso corretto dell’impulso ricevuto dalla sua ragione, lui, forse perché per la prima volta non ha avuto un luogo fisico in cui incontrare altre persone, l’ha interpretata a modo suo, inventandosi “l’ora delle urla”, ma si tratta pur sempre di un contributo al senno.

A sera esce per il suo momento di comunicazione, raggiunge il palcoscenico e comincia l’esibizione. Ha chiaro in mente il suo discorso, ma ai passanti non interessa, camminano oltre, girano lo sguardo, non esiste Tommaso eppure intorno a lui deve esserci un anello invisibile, ma materiale, che allontana la persone, perché mentre fra di loro si urtano nella fretta egoistica di passare ed occupare gli spazi collettivi nessuno nemmeno lo sfiora, Tommaso.

Urla intanto Tommaso il suo malessere, la sua rabbia, la sua infelicità, il suo disagio e pensa:

“Ma chi siete voi che non gridate e non piangete? Forse voi non soffrite? Forse voi non domandate? Forse voi sapete chi siete? Forse perché la vita è stata con voi più generosa?”.

Urla Tommaso e non sa che questo è il suo ultimo gesto da uomo nella comunità, non sa che gridare la propria rabbia nel centro di una città nel mezzo di una folla di umanità è quanto gli resta del senso di appartenenza alla collettività degli esseri umani.

Urla Tommaso per esserci, per comunicare, per partecipare, per contribuire, per modificare, per manifestare, ma sarà il suo ultimo gesto da uomo fra gli uomini. La gente che lo ignora, ma lo evita, lo ha già escluso, resta soltanto Tommaso a doverlo capire.

La solitudine nella folla non lo spaventa anzi l’ha cercata e ne ha goduto per anni passeggiando per le strade cittadine nel tardo pomeriggio dopo il lavoro, è la solitudine vera, quella vissuta fra la ristretta cerchia di vite familiari che lo ha sorpreso. Si è introdotta nella sua esistenza come un leggero senso di suscettibilità che ben presto si è trasformato nella sensazione di estraneità, poi ha conquistato le sue abitudini rendendolo sempre più schivo, la sua naturale riservatezza è diventata chiusura, non ha più permesso ad altri di conoscere i propri stati d’animo ed i suoi pensieri, cosicché c’è voluto poco perché perdesse la capacità al dialogo divenendo addirittura inadatto alla comunicazione.

Lui l’ha seguita osservandola dentro di se mentre operava e completava la sua trasformazione senza intervenire, convinto all’inizio di essere pienamente padrone della propria mente e del proprio corpo e per questo capace di ritrovare, non appena lo avesse voluto, la capacità di appartenere alla collettività, poi ne è rimasto incuriosito, affascinato ed addirittura inorgoglito, finché la solitudine, al contrario, si è impadronita completamente del corpo e della mente al punto che Tommaso anche volendo, non ha saputo né potuto, ma comunque neanche voluto più riallacciare il filo normale della vita collettiva.

Soltanto ombre gli sono rimaste della vita familiare, l’ombra di un cugino, l’ombra di uno zio, l’ombra di un amico e poi tutte le ombre di esistenze a lui legate dai più stretti vincoli di parentela gli girano intorno senza che lui possa più distinguerle, a fatica, ma riconosce ancora quella del nipote, forse perché è l’unica che riesce a comunicare con lui attraverso il linguaggio delle sensazioni e dei silenzi, ma anche questa è destinata a scomparire dietro il muro di incomunicabilità che gli sta crescendo intorno.

C’è qualcosa in lui che lo sta portando lontano dal genere umano e che ogni giorno gli propone nuove sensazioni e scoperte.

Il mattino dopo infatti avverte qualcosa di diverso, si ferma nella cucina fra la tazza di caffè, la foglia di basilico e l’albero di limone, raccoglie la testa tra le mani e vede… mattoni, si sono solo mattoni, rossi o di tufo, conglomerato di pietre rotolate, argilla asciugata, cotto, scoglio tarlato, calcare e lava, porfido e pomice, materia, materia lavorata, la pelle levigata e su di essa polvere, forse talco, ma più probabilmente fango essiccato, terra, natura, vento, uccelli, uccelli su scogliere marine, pescatori primitivi con lance affilate fiocinano pesci da cui esce sangue, il sangue imbratta la roccia ricoperta di vita marina, la pace è terminata. Come pesci sono trafitti i sentimenti dai pescatori dalla pelle sudata. Immagini antiche entrano dagli spazi fra le vertebre lombari, risalgono lungo l’interno della spina dorsale, raggiungono l’occipite e da qui esplodono nel cervello.

Pensieri, storie, vite, eternità raccontate dal vento sulla fronte. Qual è la ragione e qual è la follia? E’ folle l’animale? E’ saggio l’uomo? E’ il contrario? Chi vince?  E che cosa? La vita scorrerà comunque nelle nostre anime, le nostre azioni si perderanno nel tempo, la pioggia cancellerà le nostre impronte, la compressione amalgamerà e fonderà la materia cancellando le antiche esistenze di cui non resterà traccia nella roccia e nel mattone.

Tommaso è scosso, sente svanire il senso dell’ora delle urla, nuove sensazioni si affacciano.

“Ho bisogno di riconoscere il canto degli uccelli, quelli piccoli sugli alberi. La cinciallegra dal cardellino e dal fringuello, ne ho bisogno perché nell’umido del bosco il mio cuore si rasserena, l’aria tesa rianima il corpo ed il canto dei passeracei consola la natura umana offesa dal vivere. La vita va via in cose inutili”.

“Che aspetti a farlo, devi decidere soltanto tu della tua vita. Vai nel bosco, se pensi che quello sia il tuo elemento e perditi, io lo so che l’hai sempre desiderato. Vai adesso! Lascia perdere il tuo concetto di utile”.

“ L’ho fatto anche ieri, ma non sono contento”.

“Quello che fai per strada non lo capisco nemmeno io, che cosa significa? E’ una lezione? E’ un dialogo con il prossimo? Cerchi  di partecipare alla vita collettiva? Spiegami”.

“Stai lontana, ecco quello che voglio da te”.

“Posso pure allontanarmi di nuovo, come sempre del resto, ma tu non  troverai una conclusione al tuo tormento se non abbandoni il legame con quella che ritieni la verità. Non lo capisci che strilli alla gente parole prive di senso,Tommaso, tu vuoi cambiare il corso delle cose umane, ma stai soltanto rinunciando al tuo essere”.

“Io non so più chi sono”.

“Tu sei soltanto tu, da sempre ed inevitabilmente”.

“Cerco la ragione”.

“No, cerchi il consueto”.

“Cerco la pace”.

“No, cerchi l’inazione”.

“Cerco la felicità”.

“No, cerchi il torpore della mente”.

“Cerco me stesso”.

“Che significa?”.

“E allora cerco te, la follia”.

“E sbaglieresti, perché io non esisto”.

 

III

All’ombra della libreria enorme e legnosa a lungo ha trovato rifugio Tommaso. Tanti libri disposti in verticale, alcuni di tanto in tanto sovrapposti in orizzontale. Legno scuro e caldo, scrivania e poltrona, ma più di frequente divano su cui distendere il corpo e rinunciare a se stessi per immergersi nella letteratura. Libri, i grandi classici, soprattutto quelli greci. Ma non legge più come quando allontanava i suoi dubbi viaggiando nei poemi antichi.

Dimenticò se stesso e pianse, Tommaso, quando uccisero la piccola Ifigenia, si scagliò con odio contro Ulisse accusandolo di falsità, altro che astuzia,  ammirò l’umanità di Achille e per questo sguainò la spada al suo fianco per aiutarlo a vendicare l’amico, poi ebbe pietà di Ettore, vagò indeciso fra il campo acheo e quello troiano non sapendo con chi stare, avrebbe voluto mettere pace, ma l’opera avanzò decisa, morirono i migliori, chi seguì la ragione ebbe un futuro chi si scagliò nell’impeto della passione morì. Così Tommaso ritrovò i suoi dubbi e non provò più conforto nel restare sotto la sua libreria, costruita negli anni, per qualche ora con un buon libro o a studiare in quella camera calda e confortevole.

Non bastò più un pomeriggio di silenzio intelligente per placare la sua mente.

“Siamo tutti delle storie, Tommaso, chiunque nasce, vegetale, animale o essere umano che sia, è come una matita nuova che deve scrivere la sua avventura nel mondo, vivendo la comporrà, in ogni caso, anche senza il pensiero, basterà l’azione per costruire un percorso di vita.

Qualcuna viene migliore delle altre, alcune sono fortunate, altre inciampano nella sventura, certe finiscono subito, molte durano a lungo e su più episodi, su alcune si accanisce la vita di altri e ne vengono distrutte, su diverse influisce la volontà di un altro che ne facilita il cammino, tutte, comunque, varranno la pena di essere raccontate, ma in ognuna è necessario che l’autore combatta perché diventi sempre più carica di vita e di bellezza”.

“E’ uno strana storia quella della vita, non potendo tornare indietro viene piena di errori, cancellature, paragrafi inutili, episodi brutti. Volgendo lo sguardo alla propria esistenza ci si accorge di quanta parte di matita si è consumata senza ne vita ne bellezza”.

“Pensi a te?”.

“Si”.

“Tu devi ancora scrivere la parte migliore del tuo racconto”.

“Ho molti anni, quanto a lungo posso ancora comporre”.

“Non è importante la lunghezza, ma il contenuto”.

“Le cose fatte mi peseranno comunque”.

“Dove sono le cose fatte?”.

“Nel passato”.

“E dov’è il passato? è forse scolpito nell’aria? è inciso nella roccia? lo sorreggono le nuvole? o è adagiato nel fondo del mare? Credi che la materia accolga le tue azioni? Lei si trasforma, si amalgama, si comprime per rinascere, il tuo passato certo non è li”.

“Che dici? Il mio passato è nei miei ricordi”.

“Bravo, Tommaso, il passato è soltanto nelle nostre menti. Liberatene se vuoi”.

“Come?”.

“Pensa a tutte le cose che non vuoi più portare con te, concentrati, il modo di farle uscire dal tuo passato lo troverai da solo”.

“Voglio liberarmi di tutto. Subito dell’ansia, poi del senso di colpa e di quello del dovere, della paura del giudizio degli altri su di me come della paura dell’insuccesso. Voglio liberarmi del senso di rammarico, non voglio più pensare alle cose che non ho fatto e voglio dimenticare quelle che ho fatto e che non mi piacciono più, che cosa ho detto non lo devo più sapere, quello che ho pensato non mi deve ritornare nella mente, il dolore del corpo e della mente, i dispiaceri, le delusioni, le amarezze, le angosce, il senso di vergogna e di imbarazzo non saprò più cosa siano. Voglio liberarmi dell’austerità, della noia, delle giornate di impegno non voluto, ma dovuto, della polvere nel cervello, dell’osso nella gola e della morsa nello stomaco. Voglio liberarmi dell’abitudine all’attesa, della capacità di rinunciare, della considerazione per la saggezza, del senso di posatezza, devo dimenticare che cosa comporti alla vita la parola lentezza. Voglio liberarmi di tutto anche del ricordo di me stesso nel passato e nel presente”.

Si agita Tommaso con la testa fra le mai, la scuote, poi descrive nell’aria dei cerchi con il capo, suda, le palpebre sono serrate sugli occhi, i muscoli del volto contratti, quelli della nuca doloranti, i tendini del collo, tesi, alzano la pelle e si manifestano, la pelle si colora, il respiro è un affanno, delle lacrime riescono a passare e scendono lungo i due estremi del volto, ma in lui si manifesta la sensazione come di poter vedere i pensieri nel cervello, per questo li scova, li insegue, li affronta, li raccoglie, li stringe e li spinge verso la fronte, poi ritorna nel profondo della testa dietro la nuca ricomincia la caccia e spinge ancora i restanti  pensieri sempre più fortemente verso la fronte. Ora, si alza corre ad occhi chiusi verso la cucina, inciampa, cade, si rialza, urta la sedia, ma trova il cassetto che apre per prendere un coltello con cui incide la pelle al centro, sopra gli occhi. Esce il sangue dalla fronte.

“Esci passato non mi appartieni più”.

Passa così alcuni minuti, seduto sul pavimento con le spalle appoggiate alla parete del corridoio, quindi si calma, ritrova il giusto ritmo del respiro ed apre gli occhi, distende le gambe, poi si alza e va a bere dell’acqua, sente che se vuole i ricordi degli avvenimenti non voluti possono non tormentarlo più.

“Sono soltanto nella mia mente, potrebbero essere anche in quella di altri, ma gli altri perché dovrebbero ricordare le mie angosce, le mie paure e le mie incertezze?”.

Va nel bagno a sciacquare e medicare la ferita. Forse, oggi, ha trovato il modo di liberarsi dei ricordi indesiderati.

IV

Cresce, ma non bene, il limone in cucina, misura lo spazio del vaso e ogni anno ne chiede uno più grande, quindi ricomincia a scendere, la radice, ma subito urta il nuovo fondo e per questo riprende a girare. Ne resta infelice la gemma che appena svegliata per un nuovo slancio si vede mancare il supporto ed è costretta a continuare sottile, con foglie minori, poi si ferma per settimane e riprende avvilita, scolorita o addirittura avvizzita. Il tronco ingrossa di rado e la pianta per questo ha bisogno di un palo, ma basta pure una canna dato il peso irrisorio dell’apparato fogliare. D’estate sul terrazzo riprende colore, un poco rafforza, ma indeciso incomincia daccapo e riapre le geme alla base del tronco, abbandona per questo i rami più alti che presto si vedono superare da veloci succhioni che però, anch’essi, ben presto si fermano e arenano. La pianta per questo non appare ordinata e seppure potata non acquista l’aspetto dovuto. D’inverno, per il clima freddo della città continentale è bene che stia nella cucina riparata dal vetro del balcone e qui per vivere, vive, ma esile, il calore del termosifone fa afflosciare le foglie oppure lo inganna e gli fa aprire le gemme in gennaio e per l’assenza di vento e di pioggia è tutto ricoperto di polvere. Cresce il limone, ma cresce infelice. Insomma, il limone è nato in casa di Tommaso da circa dieci anni, ma rispetto ai suoi coetanei, che vivono in piena terra, è alto meno della metà.

La notte che arrivò la gatta però crebbe di cinque centimetri e sette millimetri, segno evidente di estremo gradimento, perlomeno così lo interpretò Tommaso.

La gatta fu portata ancora infante dal nipote, raccolta dove non si sa, ma accolta bene questo è sicuro. Suoi diventarono gli angoli migliori compreso il letto di Tommaso che, dal canto suo, ben presto si rassegnò, poi si affezionò, quindi la adottò.

“Terrò la gatta perché lei ha bisogno di compagnia, perché piace al limone e perché rallegra la casa portandole un’aggiunta di vita”.

Ora cresce viziata a tratti affettuosa quasi sempre nervosa, non conosce i suoi simili e si aggira inarcuata con lo sguardo ansioso o impaurito, fra le gambe del tavolo, della poltrona, del letto e del padrone, miagola e graffia il limone che però è contento di una presenza animale.

La nuova famiglia è al completo e Tommaso pensoso siede al tavolo della cucina.

Scorre dal collo della bottiglia il vino liquoroso, cade nel bicchiere ed ondeggia al suo interno, ruota sui bordi di vetro e ci lascia i cerchi dell’alcol, poi il colore ambrato prende il sopravvento sulla trasparenza fino all’orlo.

“A che cosa brindi, Tommaso?”.

“A tutte le cose che non sono accadute”.

La distanza fra la felicità e la malinconia è la stessa che c’è fra la fortuna e l’insuccesso, misurata come tempo può bastare un secondo, uno prima o uno dopo, misurata nello spazio può essere il millimetro che occupa un numero, o una lettera, misurata secondo le probabilità può essere quella fra il si ed il no, misurata secondo la volontà degli altri su di noi può essere sottile come la differenza fra uno stupido ed un savio. La gioia che ci da le ali e ci cambia l’intera nostra esistenza poggia su di un attimo casuale, mentre l’abilità costruita con lo scorrere degli anni ci fornisce soltanto le scarpe per non affondare.

“Bisogna rubare, si, il figlio del povero deve rubare a quello del ricco per riequilibrare la diversa sorte iniziale, il cieco deve rubare al vedente perché non è detto che questo sia più intelligente, il brutto al bello per ripagarsi della beffa subita, chi vive in disgrazia, poi, è giusto che rubbi continuamente per contrastare la malasorte, lo sfortunato al fortunato per non dover provare invidia, l’indebitato all’ereditiero soltanto perché è giusto”.

“Vuoi forse diventare un ladro?”.

“Non intendo rubare soldi ne oggetti, ma energia estraendola dal tempo, sottraendola alle cose inutili e impiegandola a proprio vantaggio, chi non è beneficiato dal caso deve procurarsi maggiore energia rubandola in mille maniere. Deve aprire il proprio tempo, dilatare il proprio spazio, afferrare il capo del filo che conduce al risultato, non deve indugiare, ma scendere dal letto al primo canto degli uccelli, deve ritmare le ore e sottolineare i giorni, cadenzare i mesi e rendere proficui gli anni. In questo consisterà la sua battaglia non soltanto per restare a galla, ma anche per uscire dall’acqua ed iniziare a camminare. Le cose che non sono accadute le deve strappare dal cielo con le mani”.

Beve ora Tommaso il bicchiere di vino liquoroso, e dopo il primo un altro e poi ancora un altro. Non si ubriaca, ma il suo animo si fa sempre più sensibile a mano a mano che il dolce del liquido scorre dentro il petto ed avvolge il cuore. Scende, il vino passito, frenato dalla sua stessa consistenza e crea una dimensione di tempo favorevole per l’armonia fra le sensazioni ed i pensieri. Pensieri che così possono trovare il modo di riformularsi e cambiare, come accade di frequente a Tommaso immerso nei suoi dubbi.

“Al diavolo, gettare tutto al diavolo e non fare niente, né lottare né rubare, ma restare immobili per lasciare immutato il corso degli eventi e sopravvivergli come fa l’albero con il tempo o la roccia con la pioggia ed il vento. Ecco, di fronte alle cose che non sono accadute, posso diventare impassibile come lo è uno scoglio di mare con le onde. Si posso diventare incurante degli eventi e mandarli al diavolo anche se non sono venuti, la mia  anima saprà fare a meno di loro, il mio corpo non ne soffrirà, la mia rabbia li maledirà. Quanto tempo ho aspettato degli eventi? Quante volte li ho desiderati ed in che cosa avrei mancato? Io in niente, siete voi che non siete venuti, o peggio siete arrivati con troppo ritardo generando rancore piuttosto che felicità. Io l’ho capito che esiste un tempo per ogni cosa, che non si possono sovrapporre eventi o cose alle stagioni della vita senza una corrispondenza precisa dettata dagli stati d’animo, la natura cresce dentro di noi alimentata dal desiderio di felicità e in questo vuole sostegno e lo cerca negli eventi e nelle cose è allora che queste devono giungere, dopo è utile come il mai,  perciò ora andate al diavolo”.

Scaglia Tommaso il bicchiere di vetro contro il vetro della finestra e vanno entrambi in frantumi, sono schegge di rabbia rese visibili dalla luce artificiale della lampadina che le fa apparire come bagliori nell’aria, cadute sul pavimento Tommaso le raccoglie.

“Ecco le mie lacrime, versate per quello che non è stato, me le riprendo, appartengono a me e non a voi”.

In ginocchio sulle mattonelle della cucina con le mani raccoglie i frammenti di vetro, si taglia la pelle, incomincia ad uscire il sangue, ma Tommaso non sente dolore e continua, fino all’ultimo, a raccogliere i pezzi della sua infelicità, li ripone in una tazza e questa nell’armadio, poi esausto viene vinto dal sonno.

V

Le mattine d’autunno, nella città umida, col latte caldo ci vuole il miele, serve a rendere meno veloce lo scorrere del calore e dargli il tempo di calmare il punto di incontro fra la gola ed il naso.

Anche i pensieri belli hanno bisogno di tempo e Tommaso sa dedicarglielo quando vengono, deve pensare appunto al miele, a quello inafferrabile di ginestra che ha assaggiato da giovane e non ha mai più ritrovato, per quanto abbia cercato.

Ricordi provenienti dal passato che ricorrentemente riemergono per dargli a tratti sollievo altre volte nostalgia, ma la ginestra gli ricorda dell’altro come la roccia ed il mare che le sono vicini, gli rimanda sensazioni di un’altra esistenza trascorsa, poi perduta, forse abbandonata, sicuramente mai più ritrovata anche se presente nell’intimo del suo essere e pronta a riemergere.

“Che senso ha pensare con nostalgia ad un passato che non ho vissuto?”.

“Tu credi di non averlo vissuto”.

“Ricordo benissimo la mia vita, anno dopo anno, oggi sono ottantaquattro, posso raccontarteli se vuoi”.

“So di che parli e non mi interessa, è una vita che li subisco”.

“E allora?”.

“Parlo dell’altra vita, quella nascosta, costruita con la fantasia e i desideri, con gli stati d’animo rinnegati ed il tempo non fermato, con l’attimo di gioia perduto per viverne uno banale, il miele di ginestra ti rimanda a quest’altra esistenza, l’hai assaggiato da giovane mentre fantasticavi, quindi ora non ricordi, ma i sapori restano e riemergono”.

“Quando l’ho provato?”

“Mentre eri distratto, in tutti gli attimi trascorsi a fissare un punto senza vederlo. Quei momenti si creano quando la parte più profonda di noi esce allo scoperto, si ruba per un istante la guida del nostro corpo e ci dirotta verso pensieri, considerazioni, emozioni, sensazioni che altrimenti non avremmo mai vissuto”.

“Li conosco quegli istanti durano pochissimo”.

“Si durano pochissimo, ma per fortuna anche se scacciati con un scatto del corpo riescono sempre a tornare di tanto in tanto”.

“Voglio ritrovarli”.

“Dipende da te”.

“Come devo fare?”.

“Ascoltati e conosciti di più”.

Nel fiume lo scorrere delle acque non è uguale, quella al centro corre lungo una linea retta veloce verso la foce, ai lati il flusso rallenta sentendo la resistenza della sponda, ma l’ultima acqua, quella che la lambisce si perde fra la mille sporgenze dell’alveo del fiume e li a volte si arresta, perde la strada, inciampa nelle radici degli ontani, sale sulle foglie pendenti del salice e rischierebbe di evaporare in quel momento se un nuovo getto di fiume non la catturasse ancora per spingerla più a valle dove si riperde, rallenta di nuovo, rinciampa, risale su altre foglie, ora di pioppo, e rigira su se stessa nei vortici creati dalle piccole conche nella riva, a volte ristagna e marcisce poi si riprende e con uno scatto incomincia di nuovo a scendere questa volta sicura, almeno così crede, verso la meta, ma un altro ramo, un’altra foglia, un’altra semplice radice la cattura ancora, e per questo è a metà corsa quando il flusso centrale ha gia raggiunto il mare senza incertezze e dubbi.

Ecco che cosa è la vita di Tommaso, acqua distratta, flusso incerto fra l’essere coerente ed un pensiero fuorviante.

“Devo fare il pane: acqua, farina, lievito e sale, girare lentamente fino creare un’unica pasta, poi lasciarla riposare per ore per farla crescere, o meglio, lievitare, domani potrò disegnare una nuova forma di pane e metterla nel forno caldissimo, si ne ho bisogno, con le mie mani posso creare il senso della vita, l’alimento base dell’uomo, la garanzia della sopravvivenza, si, fornaio nella notte, nascosto, silenzioso, fiamme, mattoni roventi, pale di ferro e di legno, materia che vive e prende forma, poi dà la vita perché esce dal portone antico nella città ancora dormiente, ma già rischiarata dalla prima luce dell’aurora, viaggia accompagnato dal canto dei primi uccelli e distribuisce quel boccone che sorregge l’anziano, fa crescere il bambino e nutre l’adulto, si il pane è il centro intorno al quale ruota la vita come una spirale che si allarga sempre più, sempre più grande ma anche sempre più trascurabile e sostituibile, fino al superfluo, all’inutile ed al dannoso.

Il pane devo fare il pane, perché devo ritornare al centro delle cose, di li posso ricominciare a girare seguendo la spirale, ma questa volta sulla linea interna quella che mantiene il legame con il pane, si dov’è la farina, l’acqua, il lievito ed il sale”.

“Ora calmati Tommaso, hai bisogno di riposo, soffia sulla mano che hai messo davanti alla faccia e lascia che il vento raggiunga la tua fronte, lasciala rinfrescare e trova il sonno, oggi è finito”.

VI

Il servizio postale restituisce a Tommaso il pacco dell’orchidea, con la dicitura: “destinatario sconosciuto”.

Tommaso lo prende, lo rigira fra le mani, ricorda, intuisce e si allarma, frenetico rompe la carta ed il nastro adesivo, il sospetto in realtà è certezza, apre i risvolti della scatola e fa entrare la luce sull’orchidea morta. Ora è secca ma è stata muffita poi marcia quindi putrida, segni di una lenta agonia per una morte atroce. Tommaso sconvolto posa le sue mani sulle guance, la bocca socchiusa ma senza lamento, gli occhi aperti e sorpresi con uno sguardo che è un presagio di pianto, ora tende le mani sulla pianta distrutta la solleva, vi cala il viso sopra e da sfogo al dolore.

“Colpa mia, sono io che ti ho abbandonata, ho affidato la tua sorte alle mani degli uomini, che leggerezza estrema dalla conseguenza nefasta”.

Disperato si accascia e piange con in mano quel che resta della pianta.

“Maledetti” urla all’improvviso, selvaggio.

In preda ad un sentimento che è somma di senso di colpa ed ira verso gli uomini, si alza con la pianta e questa volta senza “vestizione” scende per strada, nell’impeto non raggiunge il centro ma già sotto casa inizia ad urlare la sua rabbia, entra nei negozi, mostra l’orchidea morta, accusa tutti di averla uccisa, maledice, minaccia, questa volta è violento, da pugni sui banconi, nelle vetrine, sui muri, è rosso in volto e fa paura, la gente si allontana allarmata, è impossibile fingere di non vederlo, meglio tenere i bambini per mano, meglio creare un distanza reale, ancora meglio se piena di materiale, muri, portoni, aiuole, fra lei ed il fuori di senno. Lui capisce e si irrita ancora di più, per questo da calci nelle auto che passano e pugni in quelle ferme ai lati della strada, colpisce ed urla le sue maledizioni, poi in uno sguardo stupito ma non impaurito ritrova la calma, si ferma seduto sul gradino di un portone e piange sopraffatto dal dolore che gli procura la consapevolezza di una tragedia vissuta da un essere dapprima straziato per una vita d’infelicità è poi morto asfissiato in una scatola buia.

“Colpa mia – continua a ripetere – è soltanto colpa mia”.

“Si è colpa tua, Tommaso, ma è anche vero che non potevi ancora sapere che è ben difficile uscire dal mondo degli uomini. Una forza centripeta trattiene gli esseri viventi nel consesso degli umani, esseri felici ed infelici, difficilmente possono trovare una via di fuga. La tua orchidea è stata trattenuta, non è colpa di un indirizzo sbagliato o di una persona poco sensibile, è la natura dell’uomo. Nessuno anche se indesiderato può pensare di uscire dal vortice, se pazzo o povero verrà emarginato, ma se da pazzo o da povero troverà un suo equilibrio verrà subito raggiunto e tormentato.

Tommaso, per raggiungere la felicità, non è così che potrai fare quando vorrai fuggire dall’uomo”.

“Che cosa dovrò fare?”.

“Lo vedrai, è un percorso difficile”.

Tommaso si rialza è si dirige verso casa, ma prima di entrare nel portone scava con le mani una buca nel terreno dell’aiuola e vi depone l’orchidea, poi rientra in casa con l’unica consolazione che il sacrificio della pianta almeno è servito a fargli prendere coscienza di un sentiero difficile che lo attende.

“Riposa ora, troppi sentimenti ti hanno scosso oggi”.

VII

Nero sgomento della notte, Tommaso dopo qualche ora di sonno si risveglia con un nuovo pensiero che lo tormenta:

“Le parole, hanno un senso le parole? Voce, aria che passa fra le corde vocali, susseguirsi di versi diversi, prima gutturali poi solo vocali, rumore di esseri umani, che significa la parola?”

“Bravo Tommaso ci sei, continua”.

“Senso logico diretto a timpani distratti, voglia di guidare vite altrui”.

“Si è così, dai, ancora”.

“Parole, concetti, ma dov’è il vero e che cos’è il falso. Dire per affermare, parlare per comunicare, ma che cosa? Ho perso il senso della parola, sto smarrendo la ragione”.

“No, stai trovando una risposta, continua senza paura”.

“Non ce al faccio, mi ruota tutto intorno, sento allontanarsi i punti di riferimento”.

“Va tutto bene, Tommaso, va tutto bene. Un tempo parlavi molto, lo so, quando noi eravamo distanti, le tue tante parole servivano, così tu credevi, a comunicare ad altri il tuo pensiero. La ritenevi una operazione necessaria per vite diverse da congiungere in una struttura comune intessuta con la parola”.

“Certo, ed è questa la collettività, verbi per il divenire, nomi per gli elementi, aggettivi per la valutazione”.

“Fermati. Stai scivolando di nuovo indietro, svanisce la tua intuizione, ti stai riancorando alle certezze”.

“E’ così che mi sento sereno”.

“Lo so ed è così che ti perdi”.

Insofferenza alle parole, dapprincipio si era trattato soltanto di una innocua intolleranza all’eccessivo rumore della città, poi il senso di disagio aveva raggiunto i luoghi del suo quotidiano sotto forma di  avversione alle conversazioni inutili, di qui era passato al fastidio per le discussioni e al lungo scambio di opinioni durante i dialoghi, ma non aveva ancora raggiunto il livello di oggi, il rifiuto, cioè, delle sue stesse parole.

L’ora delle urla è finita, le nuove sensazioni di Tommaso sono chiare, il silenzio deve prendere il sopravvento sulla parola. Niente più può essere comunicato con la voce perché questa compone parole che non hanno significato.

“Il silenzio dell’uomo ed il verso della natura ecco quello che voglio, si, ecco perché voglio riconoscere il canto degli uccelli, ecco perché voglio trovare il contatto con la materia, il tatto devo sviluppare il senso del tatto e dell’olfatto, odori, sensazione di fresco e di caldo, pelle sulla roccia, acqua fra la roccia e la pelle, poi aria e subito dopo acqua di mare, un salto dallo scoglio nel mare, poi pressione sul corpo e sui timpani, ma subito di nuovo equilibrio e velocità subacquea”.

“Continua così Tommaso sei sulla strada giusta”.

“Ma tu chi sei? Dimmelo”.

“Silenzio Tommaso, per ora cerca il silenzio e segui le tue intuizioni di questo nuovo giorno”.

“Musica, si la musica può sostituire la parola, musica come il canto degli uccelli, musica come le onde del mare sulla spiaggia di sassi, ma anche come le complesse armonie eseguita con strumenti musicali da mani sensibili, quella che esce dal pianoforte e dal violino ed entra nelle menti di chi ascolta per catturarne i pensieri. Li coglie senza farsene accorgere, li distrae lentamente dal quotidiano, la mano smette di lavorare, gli occhi si fermano su un punto senza guardare, il corpo si fa discreto per un po’ e non invia i messaggi del tatto lungo i percorsi dei sensi che ora sono tutti muti al servizio dei pensieri che pian piano si innalzano lungo i sentieri creati dalla musica nello spazio immateriale fra la vita che conduciamo e quella che ciascuno a modo suo vorrebbe costruire. Esce dal corpo il nostro essere e libero viaggia camminando sulle note disegnate dalla musica per raggiungere l’altra parte di se quella costretta a vivere nascosta nel cavo del tronco dell’albero nel bosco o nell’anfratto di roccia sullo scoglio nel mare aperto, comunque entrambi troppo lontani durante le nostre giornate normali, dimenticati, troppo a lungo abbandonati, forse a volte addirittura rinnegati quando crediamo di costruire la nostra vita ragionevole, ma comunque sempre li pronti a riaccoglierci appena per un caso, un errore, una distrazione, siamo capaci di esistere. Si incontrano le nostre due parti e felici danzano per il tempo che la musica è capace di sospendere la vita, per il tempo che è capace di tenere lontano il rumore, per il tempo che è capace di asciugare il sudore di una giornata banale, per il tempo che è capace di tenerci per mano”.

Corre al pianoforte che ha imparato ad usare e suona, suona le prime note che gli vengono in mente alle quali associa accordi dettatigli dal suo animo, suona forte, veloce, picchia sui tasti furioso, ma poi rallenta, si placa, diminuisce il volume, si avvicina col petto allo strumento, non è più la mente a comporre ma è l’animo che fa musica e questa si fa sempre più malinconica, incerta, carica di passione e di pianto.

Lascia lo strumento e con la matita sulla carta traccia le note della musica che da tempo sentiva dentro e voleva scrivere, ora viene lei da sola, sono le sue nuove parole che si formano veloci come i pensieri che lo animano e lo tormentano. Così si alza dallo scrittoio getta il foglio all’aria e con la sua musica nella mente accenna un passo di danza, poi volteggia nella stanza e catturata la gatta che strappa al sonno, inizia il ballo. Prima lento seguendo la musica, ma poi caotico, piena di rabbia.

Percuote i tacchi sul pavimento, mischia passi diversi con generi diversi, quindi trova un ritmo che si fa sempre più veloce, salta perciò via la gatta e Tommaso libero del peso si slancia in un ritmo sfrenato che presto lo fa sudare e lo stordisce fino a farlo cadere esausto sul pavimento freddo, a pensare ancora.

Materia grezza, niente più pavimento, soltanto roccia rugosa su cui sfregare la pelle bagnata e cercare il calore, nessuna vernice sulle pareti, neanche l’intonaco ma soltanto mattoni e cemento.

“Si via il pavimento devo sentire la calce sotto i piedi nudi e le mie mani devono toccare la pietra”.

Urta Tommaso il martello pesante sul pavimento che scheggia, rumore violento e rimbombo assordante.

“Giù, getterò dalla finestra le mattonelle lisce per dare aria alla roccia sottostante, poi raschierò le pareti e strapperò i cavi elettrici e le tubature”.

Non parla più, ma pensa ed agisce e colpisce il suolo con il ferro, poi scaraventa nel vuoto i cocci divelti e i tubi di piombo. Grida, ma non sono le sue, Tommaso non parla più, ma le sente. Gente dabbasso, colpi alla porta, il martello che picchia, il sudore che riscalda la fronte, folla che accorre, di nuovo colpi alla porta, questa volta più forti come di una piccozza sul legno che si spacca, voci amichevoli e voci severe, voci imploranti e voci ostili, colpi, colpi di Tommaso sul pavimento e colpi alla porta che lentamente cede, gente, molta gente che irrompe nella casa, vestiti bianchi, vestiti azzurri, cappelli con le visiere, facce severe e facce amichevoli, mani che lo prendono e le stringono. Tommaso non urla, ma si dibatte, tenta la fuga, ora scalcia con la schiena per terra, agita i pugni e mostra i denti, ma sente le mani stringergli i polsi e le caviglie, altre che trattengono la schiena al suolo ed una che gli blocca la testa. Stoffa che stringe ed impedisce i movimenti, ago che penetra nel corpo e inietta un bruciore, ora torpore, occhi, tanti occhi sui suoi occhi che girano intorno in cerca del mare, di un po’ di blu in cui immergersi per nascondere il proprio corpo tanto desiderato dagli uomini con le lance sullo scoglio insanguinato.

“Aiuto – pensa Tommaso – devi liberarmi”.

“Non posso, ma ti seguo”.

“Aiuto ho detto”.

“Siamo vicini, ancora lontani, ma meno di prima”.

“Sento il rumore del mare, la voce dell’uomo e le grida dei piccoli”.

“Vedi sempre meglio”.

“Allora sono pazzo e mi stanno portando via per impedirmi di fare del male a me o ad altri”.

“Non nego che lo stiano facendo, ma non ammetto che tu sia pazzo”.

“Perdo conoscenza”.

“E’ la medicina che ti hanno iniettato”.

Non per Tommaso, ma per il mondo ormai è pazzia. Se l’ora delle urla era stata tollerata dalle persone a lui vicine perché, in fondo,  innocue, ora il rischio involontariamente provocato dall’ultimo impulso impone la decisione: Tommaso non vivrà più da solo, ma sarà seguito. Non tornerà più nella casa appena distrutta, ma sarà ospite di persone in grado di seguirlo.

Non crede di essere pazzo, Tommaso, ma gli  risulta chiaro che il senno, quello che lo aveva raggiunto tanti anni prima nell’armadio della sua casa paterna e che lo aveva guidato, seppure a volte contrastato da lui, per tutta la vita, è andato definitivamente via.

Il distacco con la vita coerente è avvenuto, il disagio avvertito non è più un sentimento intimo, ora è un tormento che partito dal profondo ha raggiunto la mente e da questa è fuoriuscito, si è  manifestato a tutti e ha provocato conseguenze irreversibili nella sua vita, che da oggi costruisce al posto del senno.

Nell’ambulanza che lo trasporta verso una nuova vita Tommaso cede alla stanchezza e immobile si lascia trasportare. Prova disinteresse per tutto quello che riguarda le cose pratiche ed anche le esigenze del suo corpo non lo preoccupano più. Aveva un corpo in affido e lui lo ha curato ed istruito, poi gli ha trovato una casa e un lavoro, ma per fare questo non ha curato un’altra parte di se che ora, dopo tanti decenni, sta reclamando il suo spazio.

Abbandonato il corpo alle cure degli altri, Tommaso ricomincia a pensare.

VIII

L’albero cresce spontaneo nel bosco senza sostegno e guida, ma soltanto segue il raggio di sole che lo colpisce e gli indica la strada migliore per ricevere la luce. Cresce veloce e diritto, a volte l’eccessivo sviluppo lo piega, ma la curva, quasi sempre, lignificando  scompare e la corsa verso la luce riprende sicura. Altre volte permane l’inclinazione ed allora da un punto esterno della curva una nuova gemma riprende la corsa come una retta tangente. Con gli anni il legno ingrossa e nessuno potrebbe dire che quello che ora appare come un ramo laterale è stato l’apice della pianta. Altre volte la cima si spezza, muore la gemma apicale per malattia o per volontà di un animale selvatico ed allora come generosi soldati antichi nuovi rametti si lanciano in gara per riprendere il testimone della crescita. Di questi uno diventerà tronco, gli altri si piegheranno per costruire branche laterali, oppure, se più soldati sono dello stesso valore, l’albero si biforca e cresce, forse ancora più bello, lungo due o più imponenti direttrici.

Non percorre rotte inutili, non manda rami nelle grotte buie, si discosta in linea obliqua dalla roccia, se il seme cadde troppo vicino ad essa, quel tanto che basta per elevarsi sicuro, evita i rami degli altri alberi ed aggira il masso sporgente, manda le radici in cerca di acqua e di suolo sicuro su cui scaricare il peso e cresce bilanciato su di esse. Con il freddo perde le foglie per riprenderle quando sa, certo non secondando il calendario umano, e diffonde con infiniti trucchi i semi nel mondo, nasce prima dell’uomo e vivrà anche dopo di lui.

“Gli alberi più belli li ho visti nei boschi non certo nei giardini, perché, allora, mi affanno a piantare pali di sostengo per il tronco, a potare i rami e a legarne altri per indirizzarne la crescita?”.

“Per lo stesso motivo per cui parlavi”.

“Io voglio farli crescere meglio”.

“Ti credi indispensabile, ma loro sanno vivere da soli”.

“Li lascerò liberi”.

“Bravo Tommaso non cercare più di guidare gli eventi e soprattutto le vite altrui, partecipa alla vita perché anche tu ne hai diritto, ma non ti ergere e giudice o maestro”.

“D’accordo, non userò l’ingegno per cambiare il mondo, non arginerò il fiume, non  irrigherò i campi, non lavorerò la terra, non calerò la rete”.

“Ma continua a pensare e studiare, al sapere non devi rinunciare”.

“Perché?”.

“Perché la curiosità fa parte della tua natura”.

IX

La casa che lo accoglie è confortevole, ma di carattere opposto alla sua. Niente libri su legno antico, pianoforte sul tappeto, fisarmonica e una tromba, piante piccole ed enormi in vasi decorati, cassa borchiata, cucina consumata, una sedia impagliata e una sedia col cassetto, l’albero di limone alto due metri e quaranta con le fronde sul tavolo da pranzo, dischi, dei quadri, la motocicletta rossa col volano cromato dello zio nel salotto, bottiglie di vino invecchiato, una di moscato smezzata, un binocolo della grande guerra, la spada del padre ufficiale e la trottola del nipote sul lettino disfatto, la gatta che ronfa nel cesto, la mela che cade dal piano di marmo e raggiunge l’arancia già li da due giorni, un pennello da barba, due tovaglie di spugna, la lampada sul tavolo e il passero sul parapetto, la luna nel cielo, il sole sul monte, il vento nelle tende e un orologio a cucù.

Al loro posto maioliche chiare, luce, brezza di collina, odori leggeri, mobili bianchi e sorrisi, passeggiata in giardino, orari regolari e pasti sconditi.

Tommaso apprezza. Le esigenze del vivere sono risolte e lui, ormai catturato dai suoi pensieri ed incapace di badare a se stesso, ha abbandonato senza rimpianti alla volontà altrui le sue esigenze materiali.

“Bada, non è bene che altri si occupino della tua vita”.

“Sono stanco e distratto non riesco ad occuparmi delle cose pratiche”.

“Capisco, ma credi forse di essere superiore agli altri ed avere diritti speciali?”.

“Ho badato a me stesso e ad altri per una vita”.

“Come tutti, e devi continuare a farlo”.

“Proprio tu mi richiami al senso del dovere?”.

“Siamo esseri viventi e indipendenti è naturale che ognuno badi a se”.

”Sono stanco”.

“D’accordo”.

Come la stanza dalle imposte serrate nel pomeriggio assolato d’estate può apparire soffocante a chi accaldato cerca refrigerio e si lamenta che, per il troppo chiuso, non passi un filo di vento, così la stessa camera apparirebbe pericolosamente esposta al ricambio d’aria per i tanti passaggi creati dall’infisso imperfetto, dall’uscio che dista infiniti millimetri dal pavimento e dal varco che esiste fra il vetro e il telaio della finestra a chi volesse rinchiudervi un gas pericoloso.

“Niente è. Tutto appare quello che il giudice vuole. Non ha senso l’aggettivo, come i filosofi antichi sospenderò il giudizio”.

“Fai passi veloci, siamo sempre più vicini”.

“Che dici? ma allora tu sei la voce dell’antichità greca ed io un suo discendete, si, è così, forse ero sulla nave di Ulisse quando venne in Italia, oppure affondai con un carico di merci o, forse fui fatto schiavo dai romani e portato lontano dalla mia terra? È così, devo partire, devo tornare ad Atene, cercherò le mie radici, ricostruirò la mia casa e rifonderò la mai famiglia, pianterò l’ulivo, alleverò le capre sulle rocce salate dal mare imbiancato dall’onda, curerò le api e faro il miele nella mia terra abbandonata”.

“Calmati”.

“No, è così, devo partire, subito, ecco ora esco, lasciatemi, perché mi trattenete? Non voglio tornare nella mia camera, sto bene, devo andare in Grecia, ragiono e ho capito, lasciatemi ho detto, sono un antico greco e devo tornare a casa”.

Di nuovo mani che tengono Tommaso che scalcia ed agita i pugni, ma non parla e loro non possono capire che cosa lo agiti, perciò ancora un ago che inietta il già sentito bruciore.

Tommaso ora giace sul letto della sua stanza, immobile e offeso, ma presto si  calma.

Sopraggiunge questa volta  in lui uno stato di quiescenza che lo fa apparire apatico, ad occhi estranei sembra obbediente ed accondiscendente. Si mostra mansueto ed in questo stato ottiene di lasciare la sua camera e di riprendere la passeggiata nel giardino, di nuovo senza occhi e mani su di lui, di nuovo solo.

E’ una nuova sensazione questa che prova di difficile decifrazione. Non avverte l’impulso alla lotta, neanche verbale per far valere le sue ragioni, ma non si sente neanche sconfitto. E’ stato domato? E’ questo che prova il cavallo selvaggio quando stremato accetta il morso e la sella? No perché dentro la sua anima non sente niente di rotto come ha sempre immaginato debba sentire il puledro sconfitto, in lui prevale, piuttosto una sensazione di distacco dal confronto e dal giudizio degli esseri umani. Non è una rinuncia è una completa assenza di interesse per il proprio simile, si potrebbe dire una completa distrazione dalle cose della vita dell’uomo.

Per questo appare effettivamente distratto ed immerso in un mondo interiore dal quale sono esclusi gli altri e che lui ora tutela assecondando la volontà dei suoi tutori per non essere interrotto nelle sue meditazioni.

Non sa Tommaso che questo suo nuovo essere condurrà gli altri a cercare di ottenere da lui sempre più comportamenti cosi detti normali e che ciò lo spingerà e nuove e fortunate risoluzioni.

Ora cammina Tommaso per il parco della casa, guarda i fiori e le piante ben curate, il sole del pomeriggio ancora alto e caldo lo fa sudare, sente la camicia farsi pesante sulle spalle e sulle braccia e i pantaloni lunghi divenire opprimenti, pian piano una nuova sensazione si fa avanti, vuole qualcosa di fresco, vuole… si vuole acqua, acqua sulla pelle, acqua fra i capelli e sotto i piedi, acqua intorno al corpo, sul petto, sui fianchi, acqua che lo sorregge e che lo rianima, voglia di sospensione nel liquido, poi di immersione per poi risalire e respirare dopo una lunga apnea, anche acqua dolce, ma meglio se di mare, salata, calma, ma anche agitata, spumosa, furiosa, con la risacca sulle pietre della spiaggia nascosta e con  spruzzi sulla scogliera dove i gabbiani si vanno radunando per passare la notte, acqua di mare al tramonto nell’ombra degli anfratti scogliosi, con i cefali che guardano e cercano un passaggio per fuggire, la piccola cernia che cerca rifugio sotto il masso, il marvizzo che si crede un pesce imponente e non si nasconde, ma non sa che nessuno lo prende perché pieno di spine, il polpo, gustoso, spruzza il suo nero e scompare fra i sassi, il riccio che non ha di che avere paura e l’aguglia che fugge troppo veloce.

Tommaso non resiste all’impulso e di slancio si getta nella fontana del parco, si bagna la testa, si adagia sul fondo, appoggia la schiena al bordo della vasca e calmato il calore ricomincia a pensare.

Inutile è l’affanno dell’uomo verso la gloria. Gioisce l’astronauta per aver raggiunto marte, ma marte sapeva già di essere, era li prima dell’uomo e ci sarà dopo, l’uomo cresce e scopre quello che già è, come l’infante che esplora e impara, ma il suo comprendere cambierà le cose?

“No, cambierà lui”.

“Mi sfugge il senso dell’apprendere, noi impariamo per chi?”.

“Per noi, per vivere meglio”.

“D’accordo, ma allora perché ce ne vantiamo con gli animali? la pietra è pietra e resterà pietra, l’acqua compirà il suo ciclo e arrecherà benessere alle greggi di pecore e capre sulla terra riarsa dal sole fra i tronchi contorti dell’ulivo e i rami legnosi della quercia spinosa, l’uomo impara e va avanti, dopo il fuoco ha scoperto il motore e l’ala, ora viaggia e costruisce robot, ma le cose che tocca già sapevano della loro esistenza e l’animale lo guarda curioso, è inutile vantarsi di aver capito quello che già è”.

Ancora nell’acqua della fontana viene catturato da uno strano ricordo, rivede l’anziano pescivendolo ambulante con il suo unico secchio di legno pitturato azzurro pieno di alici appena pescate, o almeno così gridava alle case del quartiere, che, nell’attesa di qualche acquirente prendeva un pesce, con le dita gli toglieva la testa e lo mangiava, crudo, senza condimento, ne altra cura.

“Perché ricordo questo ora?”.

“Il pesce si può mangiare anche crudo”.

“E’ vero, anche da noi e da tanto tempo”.

“ Assaggialo”.

“No”.

Tommaso rientra nella casa che lo accoglie per l’ora di cena. L’estate ormai è arrivata e nel giardino sotto le foglie del pergolato le tavole imbandite aspettano gli ospiti per una cena frugale, ma gradevole. Un vento caldo accarezza la pelle, l’odore della terra bagnata dal giardiniere rasserena gli animi di tutti ed i grilli incominciano il loro verso che fra poco concilierà il sonno alle tante menti stanche che affollano la casa.

Tommaso gradisce la brocca di vino rosso col ghiaccio e le fette di pesca e per prolungare il piacere della quiete vicino alla tavola è quasi tentato di riprendere il vizio del fumo, ma poi, per fortuna  sostituisce la sigaretta con un bicchiere di fine pasto di vino passito da sorseggiare, lentamente, nella serata piacevolmente calda alla cui brezza ha ora regalato il suo corpo.  Ed ecco improvviso un nuovo impulso entrargli nel cervello attraverso altri sensi da quelli consueti, pensieri che entrano direttamente nel corpo attraverso le ossa e la pelle. Ed è proprio questa che parla stasera.

Suda di rabbia la pelle infelice sotto il vestito pesante, ansima e resta bianca. Sotto la lana rammollisce e si ammala, si assottiglia e per la diafana trasparenza compare l’azzurra arteria. La pelle diventa leggera, fragile arrossa al minimo urto e marcisce, attecchiscono i funghi e fissano dimora i batteri, più neri risaltano i nei. Nel buio dei panni non segue più il giorno, non sa se c’è il sole o se c’è la rugiada, dimentica presto il sapore del sale, sensibile urla ad ogni bruciore e molle ricade in pieghe vezzose. Non risponde alla stagione che viene, per la giacca imbottita può aver caldo in inverno e per questo sudare in gennaio come se un loto maturasse a febbraio,  poi ha freddo d’estate per  le aree condizionate e perde il tatto per un dito di grasso. Non è più una corazza e un niente la trapassa, la graffia, la offende, la punge. Soffre la pelle sotto il vestito asfissiante.

“Mai più vestiti offenderanno la mia pelle, un’armatura voglio tenere. Ho bisogno di sentire la mia pelle vivere nell’aria fredda del mattino, poi scaldarsi sotto il sole e sulla roccia,  la voglio guardare ricoperta di sale marino, forte e tenace non deve temere lo scoglio e il frutto di mare. Grandine, pioggia, rarissimamente la neve, la dovranno indurire e, stretta sul corpo dovrà restare mentre mi tuffo dalla roccia nel mare e nuoto sott’acqua, poi risalgo sulla spiaggia sassosa e mi rotolo con la pelle sulle pietre roventi di sole  che le cedono uno strato di polvere di roccia, brucia così il parassita e asciuga l’umidità  e si rende liscia, la pelle, sana, resistente, dura, impermeabile. Scomparirà l’interno del corpo sotto lo strato di cute abbronzata e selvaggia”.

Tommaso, ora rifugiatosi nella sua camera, si straccia di dosso i vestiti, lancia dal balcone le scarpe e la camicia, si guarda la pelle, la trova bianca e delicata, la decisione ormai è presa, un unico compromesso, per non offendere gli uomini, si lascia un panno a cingergli i fianchi.

 

 

 

X

“Diciamo di esistere, ma esistere che cosa significa? Il pane è fatto di quattro elementi che combinati creano un’essenza evidente e a tutti gradita, noi siamo fatti di sguardo, ascolto, cammino, tocco, assaggio, respiro, olfatto, caldo, freddo, brivido, lettura, comprensione, distrazione, concentrazione, sudore, distensione, giacitura, copertura, corsa, canto, mangiare, dormire, bere, risciacquo, suono, sogno, seduta, studio, lavoro, passeggio, riposo, viaggio, pedalata, riordino, scrittura,  pensiero, malattie, guarigioni, ricadute, tutto questo a chi è gradito? Anch’io sono, ma sono stanco”.

“Dice di essere stanco colui che, pur essendo, non sa chi sia e per questo conduce, con fatica, la vita al di fuori del percorso a lui congeniale, tu sei, ma non hai capito chi, sei”.

“Dimmi tu, chi sono?”.

“Non posso dirtelo, solo quando lo capirai ti accetterai, ora ne soffriresti”.

“Blu, rosso, grigio, verde, sono moltissimi i colori e con le sfumature diventano infiniti, c’è chi non li percepisce, li chiamano daltonici, io invece li vedo e mi chiedo perché? li vedono gli animali? Alcuni dicono di no, ma come sarebbe le vita senza il bianco delle nuvole sul verde del bosco e il mare giallo del pomeriggio assolato?”.

Prova ad immaginarlo Tommaso e per questo chiude gli occhi, tocca gli oggetti.

“Si possono distinguere anche senza vederli, quindi si possono capire anche senza i colori. Sono molti gli animali che vivono al buio delle grotte, sotto la terra o nella scarsezza di luce dei fondali marini e della notte. Potrei farne a meno? Ne sarei infelice?”.

Tommaso deve capirlo e per questo prende il secchio di vernice dal deposito del custode e comincia a ricoprire tutto di bianco, porte, divani, vetri, ma anche foglie, fiori, pietre.

“Bianco, senza differenza di colore devo rendere il paesaggio così potrò capire il senso del colore e l’effetto della sua assenza sul mio animo. Ho capito che non posso vivere senza suoni, senza acqua, ho bisogno del senso del tatto, la pelle libera a contatto con l’aria ed il vento. Cieco, posso vivere senza occhi?”.

Continua ad imbiancare tutto ciò che lo circonda, ora frenetico perché capisce che non potrà riuscirci mai, lancia gocce di vernice dappertutto finché ancora una volta viene preso, immobilizzato e calmato.

“Non ti affannare oltre Tommaso, posso dirtelo io che gli occhi ed i colori ti servono per vivere, per capire la profondità degli spazi, il buono dall’indigesto, anche dove stati andando ci saranno i colori”.

XI

Il bisogno di acqua spinge Tommaso a fare frequenti docce ed anche ora lascia scrosciare le gocce sui capelli e sulle spalle, sente il corpo respirare in un senso di liberazione e di isolamento dal resto del mondo e dall’intero genere umano, ma sa anche che queste gocce servono soltanto a consolare il corpo che vorrebbe immergersi nel mare, ora, subito, dall’alba al tramonto, dalla superficie fino al profondo seguendo il pendio subacqueo ricoperto di poseidonie.

Nuota Tommaso sotto le gocce immaginando il mare ne sente la pressione e simula l’armonia dei movimenti necessaria per sfilare sott’acqua ad inseguire un pesce, a cogliere una pietra, a ritornare in superficie a respirare una grossa boccata di aria per ridiscendere ancora a guardare il sole da sotto il livello dell’acqua con la testa in basso le gambe in alto e la schiena a strusciare le alghe.

“Ora basta Tommaso, tu devi andare via di qui, non è questa la tua meta”.

“Lasciami nuotare, sto sognando il mare”.

“Tu non devi sognare, devi agire per capire e non tormentarti più”.

“Non posso uscire di qui, hai visto che cosa mi hanno fatto quando volevo andare in Grecia”.

“Ascolta Tommaso, non far finta di non capire. Tu sei qui perché sei considerato pazzo, e non potrai lasciare questo luogo finché non ti dimostri ragionevole”.

“Che cosa devo fare?”.

“Devi fingerti normale, ma devi avere pazienza, è un lavoro lungo, poi ti lasceranno uscire”.

Smette di nuotare sotto le gocce, chiude l’acqua ed esce dalla doccia. Il viso è leggermente contratto, lo sguardo deciso, i movimenti sono regolari è la mente che sta decidendo.

“E’ vero, non devo restare in questa casa in collina dove non sono io a guidare me stesso e la natura non è quella che cerco”.

Come fare per riacquistare il diritto di decidere per se stessi?

“Tu lo sai bene, vai in camera e rientra nell’armadio, siediti sopra il ripiano dei cassetti e guardati le gambe che escono dalle ante aperte. Devi solo ragionare come facesti quel giorno”.

Corre Tommaso verso l’armadio che apre per sedersi a guardare le gambe, le braccia i piedi.

“Si, il mio corpo da curare e guidare, ma questa volta come e dove dico io, nessuno potrà più condizionarmi, seguirò la mia volontà, costruirò la mia vita seguendo gli impulsi del pensiero, ma ora, è vero, devo apparire normale per riacquistare la capacità giuridica, poi sarò libero”.

“Bravo è così che devi fare se vuoi sfuggire al controllo”.

“Ma questo significa che dovrò rivestirmi, parlare, non so se ne sarò capace”.

“Devi farcela se vuoi riprendere le redini della tua vita e condurti dove tu vuoi”.

Si trasforma Tommaso, ma intelligentemente, non rapidamente. Come primo segno di guarigione decide di indossare dei vestiti per partecipare, quella stessa sera, alla cena nel giardino della casa. Poi lentamente giorno dopo giorno, settimana dopo settimana,  riprenderà la parola, si intratterrà in sempre più lunghe conversazioni, stringerà la mano ai suoi tutori, sorriderà, leggerà, ringrazierà per le attenzioni ricevute. Lentamente ritornerà normale ecco il progetto di Tommaso per ingannare ed evadere, questa volta consapevolmente e definitivamente. L’esperienza dell’orchidea gli ritorna utile.

“Che ingenuità che feci, non ci si può liberare con una semplice lettera di ringraziamento: Grazie a tutti, ma ora lasciatemi in pace. No è ben più difficile sfuggire al campo gravitazionale del genere umano”.

Mentre il corpo esegue i compiaciuti ed ingenui ordini dei tutori, la mente progetta.

E’ felice Tommaso, sente di avere ripreso le redini della sua vita, che è sua, come anche prima, con la differenza che ora sa di poterla continuare come vuole, libero, con la sua capacità di agire e di costruire.

“Appena fuori di qui chiederò alla pelle dove vuole vivere, se vuole l’aria fredda boreale, il caldo subtropicale o l’umido equatoriale, ascolterò il corpo, sarà lui a dirmi se preferisce essere magro o grasso, ma comunque agile e forte, decideranno i miei piedi se vogliono camminare sui sentieri di montagna, andare nel bosco o percorrere le scogliere marine, sempre nudi e come la pelle liberi di partecipare alla vita. Saranno gli occhi a guidarmi seguendo la linea della luce che li colpisce e li incuriosisce, chiederò al tatto di indicarmi il giaciglio migliore per dormire, non duro, ma neanche troppo molle, chiederò alle orecchie che cosa vogliono ascoltare, non più parole, ma soltanto musica, si musica, quella del vento, del canto della notte di stelle che rotolano nel cielo d’estate sopra il mare e la spiaggia, la musica della natura che chiama le nostre anime ad unirsi a lei, chiederò al mio corpo di tuffarsi dall’alto della roccia per un volo lunghissimo, planato, sorretto dai desideri, dai ricordi, dalle cose belle vissute, dalle nuove idee da sviluppare, dall’armonia fra l’essere ed il volere, il vento scorrerà intorno al corpo e lo libererà di tutto il male sopportato, il sudore, l’angoscia, la noia, la malinconia, l’attesa, la tristezza. Si mi tufferò dallo scoglio altissimo per sprofondare nel mare notturno illuminato ora dalla luna che sorgendo è venuta a dare manforte alle stelle a fare chiarore nel cielo e sul mare e mi guida nei fondali alla scoperta della vita subacquea senza respirare per interi minuti avvolto soltanto dal silenzio e dalla profondità dei pensieri che soli resteranno a guidare la mia vita”.

Giunge così il primo segnale di ritrovata fiducia: Tommaso può riavere con se la gatta ed il limone.

Non sembra cambiata la gatta solamente un poco ingrassata e lievemente più isterica di prima, chissà con chi è stata, forse bambini o vicinanza di cani, ma è il limone che allarma Tommaso:

“Chi ti ha curato, mio povero amico”.

Secco, privo di foglie, ancora nel vaso di quando era nella cucina della vecchia casa, poca ed arsa la terra, la canna di sostegno spezzata, praticamente sfinito e in fin di vita ritorna il limone.

“Ti pianterei subito in piena terra, ma non è questa la stagione propizia e soprattutto il tuo ambiente ideale, sarà presto inverno e vedrai il freddo che fa su questa collina, ancora di più che nella nostra città”.

Non è indipendente il limone e per bere ha bisogno dell’uomo, la sua prigionia e dettata del vaso, è la parete di argilla che gli lesina spazio, aria e umidità, cosicché ne soffre la parte emersa per ogni minima distrazione del suo tutore e chi lo ha avuto in affido non l’ha certo amato.

Se ne addolora Tommaso ed inizia la cura: ottiene dal giardiniere un vaso più grande e tre chili di terra, ma deve presto fuggire per evitare alla pianta una drastica potatura.

“Non fa bene al vegetale la solita cura, non voglio fare al limone la  brutale scapitozzatura, solo acqua e concime, saprà lui come reagire”.

Trapiantato l’albero lo sistema vicino all’anta del balcone e con pazienza occorrerà aspettare la primavera inoltrata per vedere aprirsi le gemme nuove.

Ma ora deve prima venire l’inverno e la gatta che lo sa, ha già preso possesso del divano, del letto, del tappeto vicino al termosifone e della scatola di cartone dentro l’armadio, in cambio ha lasciato a Tommaso lo spiffero che viene da sotto la finestra, la condensa intorno al tubo dell’acqua fredda nel bagno e l’intero pavimento della sua nuova stanza che ora misura con uno sguardo viziato.

Già da giorni, per l’intero mattino, la foglia di quercia caduta in autunno sul prato è ricoperta di ghiaccio, dappertutto sottili aghi bianchi marcano i contorni delle cose: dei tronchi, delle pietre, dei fili d’erba, del tralcio della vite, del ferro che borda l’aiuola e, mentre l’acqua in movimento della fontana scroscia, quella che ristagna insieme alla goccia, che urtato il bordo della vasca raggiunge il terreno, ghiaccia velocemente.

Questa mattina però c’è ancora più bianco perché anche il cielo è un unico velo di nuvole basse senza squarci né variazioni di colore che si estende dal nord al sud e dall’est all’ovest sopra la colina e la casa. Fa freddo, lo avverte Tommaso fin sotto le coperte nel letto dentro la sua camera, per il vero non prova freddo perché il riscaldamento funziona bene, ma lo sente per l’immobilità della natura ed il silenzio degli uccelli dettato dal gelo:

“Oggi nevicherà, ed io farò una lunga passeggiata nel giardino e nel bosco per respirare l’aria fresca e pulita che entra nella testa e purifica i pensieri, porterò con me anche la gatta perché conosca un poco la natura e non solo gli interni delle case”.

Capisce quel clima Tommaso perché, pur più freddo, è della stessa natura di quello della sua città ed infatti mentre fa colazione e si appresta ad uscire incomincia a scendere la neve.

Non c’è un primo fiocco e poi un altro, la neve viene giù tutta insieme come se il cielo già bianco e basso avesse deciso di scendere a terra all’improvviso diviso in un milione di pezzi del suo stesso colore, cosicché guardando dal basso la nuvola non si riesce a capire da dove nasce la neve.

Scendono i fiocchi a velocità diverse e raggiunto il terreno ne coprono una porzione pari alla loro grandezza. Dapprima lentamente poi fitta scende e nel giro di pochi minuti il paesaggio ne risulta cambiato. Tommaso passeggia e gioisce, respira e purifica i pensieri, guarda e odora prima il giardino e poi il bosco. Meno felice appare la gatta che con lo sguardo spaesato si regge a turno su soli tre piedi ed il quarto lo sospende nell’aria, lo guarda sconvolta e quindi lo fa vibrare sperando di staccare quel bianco gelato, non sa che cosa fare, guarda Tommaso, la neve  e la casa e non ci vuol molto a capire che proporrebbe di fare se solo il padrone si fermasse a guardarla. Finalmente Tommaso si ferma a sedere, spolverata la neve da un masso nel bosco decide di dare una sosta al corpo per far correre più veloci i pensieri, ne approfitta la gatta che gli sale sul grembo e si acquatta rapida fra le pieghe del capotto.

Guarda e pensa Tommaso, bello il paesaggio innevato soprattutto coinvolge il silenzio che regna fra i rami degli alberi e sui monti vicini. In alto il verde degli abeti trattiene meglio la neve, ma a Tommaso piace di più il bosco deciduo che crea un forte contrasto col suo colore di legno contro il bianco del cielo ed oggi anche del suolo. E’ ferma la natura in questo giorno freddo d’inverno, sono chiuse le gemme e non aggiunge anelli il legno del tronco, le foglie sono cadute, ma anche i sempreverdi giacciono in quiete. Così trascorre la vita per le piante sui monti e nella pianura continentale, non si danno la mano le diverse stagioni della crescita: fra un anno che finisce e quello nuovo c’è il silenzio del gelo d’inverno.

Scende la neve sempre più fitta e la temperatura si fa più mite per il giorno che avanza, se ne accorge un piccolo uccello che lancia un flebile segnale di presenza, poi un corvo rompe con più decisione il silenzio, ma la neve continua a venire giù ed il bosco, il giardino, la casa, la collina ed i monti sono già tutti bianchi come pure Tommaso sulle cui spalle si è fermato qualche fiocco di neve.

Guarda Tommaso il paesaggio che ha d’intorno sa di essere in un posto ed in un momento bellissimo tante volte desiderato in quelle giornate inutili trascorse ad assecondare la sopravvivenza, sa di essere vicino all’altra parte di se tanto a lungo trascurata e, seppur cercata, mai pienamente ritrovata.

Gli si offre, attende il suo arrivo, ma non è lei farsi vicina. Piuttosto è un’altra sensazione non di  felicità anzi è una leggera malinconia che inizia ed entrargli nel corpo, passa per l’addome e risale nel petto fino a raggiungere il cuore, diviene più forte ed ingrossa, di li arriva alla gola e poi fino agli occhi che si inumidiscono.

Tommaso è raggiunto, nell’immobilità dell’aria gelata, da tutta la solitudine impostagli dal tormento.    Lentamente china il busto in avanti sulle braccia incrociate fino a toccare con la sommità della testa le ginocchia piegate intorno all’orlo del masso, la schiena incurvata e nel mezzo la gatta che dorme più al caldo di prima nel chiuso di una grotta buia creata dal corpo di Tommaso che in questa ha anch’egli voluto nascondere la faccia e lo sguardo. I pezzi bianchi del cielo continuano a scendere dai monti verso la collina poi entrano fra i rami del bosco che non tutti riescono ad evitare e raggiungono il suolo e la schiena incurvata che inizia a ricoprirsi di neve, immobile Tommaso lascia che la natura si impossessi del suo corpo, lo prenda e lo nasconda perché non venga raggiunto dagli antichi dubbi, oggi non vuole provare tristezza né ha la forza di soffrire, così, all’interno del suo stesso buio chiude gli occhi ora privi di lacrime e incomincia a dormire come già da tempo sta facendo la gatta.

La neve li ricopre entrambi fino a sera, fino all’ultimo grido di richiamo a cui Tommaso non risponde, fino a quando mani amichevoli scrollano loro di dosso più di venti centimetri di soffice materia che li aveva resi parte integrante del bosco, come un cespuglio di agrifoglio, come un masso ricoperto di muschio, come un albero infante curvato dal peso, però sereni  nel ventre silenzioso del bosco e li raccolgono e li conducono nel tepore della loro camera. Tommaso si lascia trascinare questa volta contento perché per la prima volta è riuscito a vincere il dolore, da solo, nel cuore del bosco innevato.

L’episodio è una brutta battuta d’arresto nel lavoro di Tommaso per riavere la fiducia degli uomini. Ma la lucidità di Tommaso riprende con lena a costruire il futuro, finché il nuovo comportamento convince.

L’attesa è lunga, ma i riconoscimenti non tardano.   Ora può di nuovo disporre delle sue cose, e decide.

Non tornerà alla sua casa nella città di terra, supermercati, aiuole e semafori non hanno più senso nella sua vita, per questo, come è bene e secondo natura, lascia scorrere la proprietà di tutti i suoi oggetti secondo gli assi ed i rami ereditari, trattiene solo la gatta, il limone di due metri e quaranta e la casa, ma questa solo finché riuscirà a venderla, poi con una parte del ricavato ne acquisterà un’altra, quando la troverà e il resto, finalmente anch’esso, a figli e nipoti.

Non lascia molto, a dire il vero, ai suoi eredi Tommaso dal momento che da tempo ha portato a termine la sua decisione di non possedere oggetti alla moda.

“Tutto deve essere funzionante, ma nessuno deve prendersi il mio tempo”.

Così pensando aveva calibrato gli acquisti ai suoi bisogni, smascherato gli inganni, ottimizzato l’uso del proprio lavoro e rubata l’energia. Con il risultato che gli oggetti da lui posseduti, pur adattissimi allo scopo, non suscitano invidia e non vengono desiderati perché sono aggiustati, incollati, legati, ammaccati, martellati, usati, riverniciati, inchiodati, rattoppati, usurati, levigati e consumati cosicché non vengono sottratti e non ha mai dovuto comprare catenacci, serrature, blindature, catene, casseforti, antifurti, lucchetti e paletti e, con i soldi risparmiati, ha potuto acquistare dei biglietti del treno per qualche viaggio in più, un vocabolario di greco antico, un orologio da polso con la carica manuale, un martello col manico di ferro, un vaso nuovo per una pianta vecchia e grossa, un pacco di filtri nuovi per fare del te e l’ennesima bicicletta usata perché per quella non vale la regola e per quanto arrugginita e scassata c’è sempre qualch’uno ancora più malandato disposto a rubarla. Progetta Tommaso, asseconda i tutori e sogna la sua nuova vita.

“Pianterò finalmente il limone nel terreno adiacente alla nuova casa, liberandone le radici. Bianca, ovviamente, dovrà essere la casa mediterranea. Pittati a calce ogni anno a primavera, soffitti, pareti e pavimenti, scalini muri esterni, terrazzino e parapetto, bianco grezzo sul muro consumato ed imperfetto, ruvido, ma asciutto e pulito dove posare i piedi nudi e strusciare la pelle abbronzata che si imbianca di polvere di calce, non di fango essiccato, che si aggiunge al sale marino catturato col primo bagno del mattino. Il resto di legno rosso o blu o giallo o verde, si vedrà. Una finestra sul mare per pensare, un terrazzino sul limone per ascoltare, una porta sugli scalini per fare entrare chi vuole insieme all’odore dei capperi tenuti sotto sale nello stanzone dietro l’arco, un forno dove fare il pane, non per forza tutti i giorni, un filare di cetrioli, per la cena, uno di pomodori, per il pranzo, la zucca che cresce allungata, per l’inverno, l’oliva nera insieme a quella verde nel barattolo gigantesco, la gatta, questa volta sul fico, che soffia all’asino che mangia sotto il carrubo e che, comunque, non è mio, uno scoglio vicino al mare per tuffarsi, una spiaggia di sassi per risalire, la damigiana di vino, il camino in cucina, il fringuello che canta sul ramo di leccio e non sa nulla della polenta, la barca nel mare che beccheggia per l’onda, questa volta è la mia, e un orto di capperi”.

“Non dico che sbagli, ma spiegami perché vuoi vivere in questa casa”.

“Per coerenza o, se preferisci, dignità. Se rifiuto le cose del vivere civile, che senso ha vivere nella metropoli?”.

“Diventi eremita?”.

“No, il mio disinteresse non comporta l’intenzione di ostacolare il contatto con gli uomini. Mi terrò discretamente appartato”.

“Che cosa vuoi farci in questa casa da mattina a sera?”.

“Non lo so, ma i miei desideri mi dicono di andarci”.

Passa la nostra vita cadenzata dal bisogno. Poco è il tempo che rimane per apprendere e pensare. E’ un bene o è un male che l’animo venga distratto dalla necessità del vivere? E’ mai infelice l’animale che impiega l’intera esistenza a procurarsi cibo e rifugio?

“Io ho sempre avuto bisogno di tempo, nella futura casa sulla scogliera e sul mare potrò finalmente liberare il pensiero”.

“Va bene, Tommaso, realizza il tuo disegno, io non ti ostacolo”.

“Ma capisco che  nemmeno mi incoraggi”.

“I viaggi hanno bisogno di soste, una la stai ora terminando, la casa con l’orto di capperi sarà la seconda”.

“No, desidero riposare nella casa bianca, sento che li mi fermerò, è in questa villa in collina che non avrei voluto venire”.

“Alcune tappe, anche se non volute, sono necessarie. Non è facile uscire dal consesso civile senza essere accusati di pazzia”.

“Dove sto andando? Sono o non sono pazzo?”.

“Continui a chiederti se sei pazzo perché non hai ancora capito il tuo percorso, ma io ho sempre negato la tua pazzia”.

XII

Continua ancora a lungo la recita nella casa che lo accoglie. E’ faticosa e penosa, per Tommaso, in cui prosegue, a dispetto dei suoi tentativi di dialogo, l’insofferenza per la parola. La conversazione lo rende impaziente, le cortesie di circostanza lo disorientano. Tommaso non ha più la cognizione di se nel contesto umano. Percepisce se stesso come un corpo estraneo nel mondo civile.

Come già al lavoro, ora, nel salotto di questa villa in collina, cerca di passare inosservato, evita i gruppi di persone in conversazione, è pervaso continuamente da una sensazione di incapacità ed insieme di estraneità alle relazioni umane.

“Sto smarrendo il senso della collettività. Non sento più le persone come esseri solidali, ma piuttosto come rivali, nelle grandi cose, come in quelle piccole e trascurabili, chi è l’uomo e perché vive in comunità? Qual è la funzione del gruppo? Da chi si difende? O, forse attacca?”.

”Cos’altro provi?”.

“Provo fastidio per la maleducazione e non mi è di consolazione l’idea che con il tempo le cose possano migliorare. Io non ho tempo o non voglio sprecarlo per attendere”.

“Continua”.

“Insofferenza che a tratti sfocia nell’ira, anche il piccolo sopruso mi rende feroce, la mia immaginazione progetta violenza, maturo la capacità di uccidere, provo il sentimento che, suppongo, animava le schiere di guerrieri antichi nella lotta corpo a corpo: impeto di vendetta e ritorsione, odio sanguinario, potenza assassina, slancio furioso, forza compressa e d’improvviso scatenata, corsa impetuosa, sangue che gonfia le vene, respiro profondo per urla selvagge, cosicché sotto i formidabili colpi di strumenti di morte nelle mie mani saltano teste, braccia, gambe, si perforano addomi e casse toraciche di prepotenti, arroganti, egoisti, presuntuosi, atteggiati o, semplicemente, di quelli che sputano per terra e di ignari passanti tutt’al più maleducati. Quando l’ira è maggiore, però, abbandono le armi ed è con le mie mani che afferro il nemico lo trascino e lo sbatto contro muri e rocce, affondo le dita uncinate nella carne del volto, tiro calci e fracasso le ossa, lo sollevo e lo scaglio furioso giù nel burrone o nel bidone dell’immondizia, faccio piazza pulita perché sono un furioso giustiziere, posso farlo perché ho dalla mia il consenso delle persone oneste, che però cercano di fermarmi e di sottrarmi la vittima invitandomi a ritrovare la ragione, ma io mi divincolo ed inseguo il maledetto che fugge, lo raggiungo e lo strazio di nuovo con ancor più furore perché mi ha offeso di nuovo sentendosi al sicuro protetto dalla folla paciera. Penso questo anche se so che mai lo farò”.

“Allora?”.

“Allora sto uscendo dal contesto sociale, mi da fastidio il mio prossimo”.

“Chi è il tuo prossimo?”.

“Ma l’uomo, la gente, chi altrimenti?”.

“Certo. Ora manda avanti il tuo progetto”.

Persegue il suo obiettivo, Tommaso e quando deve parla, sorride, ringrazia. Trascorrono molti mesi e qualche anno, ma finalmente raggiunge il traguardo: può disporre di se e quando vorrà potrà uscire.

Il disegno della sua vita futura prende corpo fin nei minimi dettagli, firma il contratto di vendita e poi quello di acquisto, e, finalmente, parte per la casa pittata a calce.

Isolata sulla scogliera inaccessibile ad auto e motociclette, si giunge solo a piedi o a dorso di mulo e Tommaso si avvia per il sentiero sassoso che segue la costa sul mare limpido dell’isola greca. E’ finita la recita, ora mentre misura con gli occhi il tragitto che lo separa dalla casa, muto si straccia la camicia di dosso, getta ai cespugli le scarpe, straccia le gambe ai pantaloni, e come prima, mantiene coperti i fianchi, ancora un legame con la civiltà? Un antico pudore? Ora non importa capirlo, è felice ed impaziente di iniziare la sua nuova vita in cui non esisteranno doveri, convenzioni, attese, noia, ma il corpo potrà essere legato ai pensieri ed agire prontamente ad ogni decisione di questi.

Si incammina quindi verso la casa con la gatta fra i piedi ed il limone sulle spalle. Prima di entrare in casa pianta l’albero sotto il terrazzino, solleva la gatta e la lascia sul ramo di fico poi scende allo scoglio per un tuffo nel mare. Acqua, finalmente acqua intorno al corpo bisognoso di liberazione, intorno alla mente assetata di frescura, intorno agli occhi desiderosi di immensità ed  alle orecchie povere di silenzio.

Nuota Tommaso, si rigira nel mare illuminato dall’ora del primo mattino e guarda la costa. Antichi ulivi dal tronco contorto stringono con le radici la terra rocciosa, più in basso, in prossimità del mare, la macchia odorosa colora di verde le pietre, in alto le antiche querce basse e selvagge ospitano greggi di pecore e capre, l’asino del pastore bruca le erbe secche sulla piccola spiaggia di ciottoli, poi scorge i fiori ricchi di api.

“Alleverò le api nell’orto di capperi, farò il miele e lo spalmerò sul pane cotto col legno nel forno, ritroverò il miele di ginestra”.

E’ libero, solo, in silenzio, immerso nell’acqua, può pensare, può agire, può sognare, per questo raggiunge lo scoglio rugoso ricoperto in basso di vita marina e sopra di sale e si sdraia con la schiena sulle roccia calda per chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dall’immaginazione, così si addormenta e sogna.

Sogna di lasciarsi trasportare dalle onde e di girare l’intero mediterraneo, non vede metropoli, ma campi di pensieri, idee che si fondono con la natura, nascono da questa e la completano a volte sovrastano gli alberi altre ne sono la base ed il sostegno, tutto in armonia compreso l’uomo che coltiva progresso e scrittura, musica e scienza.

Si sveglia Tommaso ed è felice di scivolare, questa volta col petto sulla vegetazione, simile a muschio, dello scoglio, nel mare per immergersi a curiosare sul fondale ricco di vita, senza tormenti.

“Sarò felice in questa casa, non solo d’estate. Aspetterò l’inverno, dopo aver visto l’autunno con i suoi lampi che vanno dal cielo al mare, affacciato al terrazzino vedrò le piogge sulla terra e sugli alberi che ne fanno scorta per superare l’estate, brucerò la legna nel forno e nel camino in cucina per fare pane e cibo caldo, così aspetterò la primavera cogliendone i primi segnali già a fine gennaio nelle piante piccole ed impazienti, finché in maggio la saggia quercia non avrà messo le nuove foglie annunciando l’ingresso dell’estate mediterranea. Sarò sempre sul mare con la barca di legno colorato, ma nei giorni di burrasca sarò nel bosco ora fresco, ora caldo a raccogliere con le stagioni: funghi, asparagi, rucola e more”.

XIII

Non trovato più l’ostacolo del vaso la radice scende nel profondo della terra per  assaporare con calma l’umidità naturale del sottosuolo. Dopo aver per tanto tempo rigirato dentro un coccio in una cucina metropolitana il  limone di due metri e quaranta valuta con circospezione la nuova condizione e, secondando i suoi tempi che per l’uomo e l’animale sarebbero infiniti, misura, per primo, lo spazio sotterraneo. Una radice scende in linea retta verso il centro della terra, supera lo strato arido del suolo mediterraneo, scalza un sasso e si rituffa nel terreno questa volta più umido, incredula, vuole conoscere il nuovo fondo che non troverà mai, però viene premiata dalla frescura  che la bagna e la consola. Così diventa preziosa per l’intera pianta che da essa riceverà quel piccolo ma continuo sorso d’acqua che le consentirà di sopravvivere anche nelle giornate più calde della siccitosa estate. Un’altra radice si spinge in obliquo, va giù, ma intanto esplora lo spazio allontanandosi dalla verticale del tronco, incontra il muro sotterraneo che fa da fondamenta alla casa, lo aggira, cresce e si ingrossa alle sue spalle, si puntella e diventa sostegno sicuro in previsione dei giorni ventosi, altre tre partono a raggiera appena sotto la superficie, sopportano l’afa ed il calore, rischiano il colpo di zoccolo dell’asino e il brucare delle capre, però al primo acquazzone trovano il premio in un’abbondante bevuta che fa risalire  rapida l’acqua l’ungo le fibre del tronco a gonfiare le foglie, i ramoscelli, i fiori ed i frutti, poi al primo sole del mattino fa schiudere le gemme per una nuova stagione di crescita. Così l’albero esplora anche l’aria, si espande in altezza e larghezza. Qualche ramo cresce impaziente e diritto altri scrutano, osservano, indugiano, ma, infine anche loro si sviluppano e il limone, dopo pochi mesi, è già di tre metri e cinquanta, si affaccia al parapetto della terrazza e promette, di farle un po’ d’ombra già a partire dall’anno prossimo venturo. E’ diventato così indipendente perché per bere non ha più bisogno di Tommaso e, poiché dubbi, per la sua natura, non li ha, si gode gli spazzi, il sole, la luna, la pioggia ed il tempo che sono la sua libertà.

Tramonta il sole e Tommaso è ancora in acqua seduto sulle pietre rotonde della riva a guardare il proprio corpo che sa, questa volta,  di aver portato in un posto migliore.

Si ricorda della musica composta nella casa di città, la ripercorre, la ascolta, la sente ancora sua e decide di scriverla incidendola nella roccia della scogliera. Per questo esce dall’acqua e trovato del ferro su di un pezzo di barca scaraventato sulla spiaggia dalle onde del mare in tempesta, incide prima il pentagramma, la chiave, il tempo e poi le note della melodia. Finisce che è già mattino ed il chiarore del nuovo giorno illumina la roccia liscia con su scritta la sua musica. Tomaso si ferma a pensare seduto su di un masso mentre dal cielo, oggi nuvoloso, incomincia a scendere la pioggia. Passa l’acqua piovana fra i capelli lunghi e bianchi, li distende sul capo, sulla fronte, sul collo poi scorre sulle spalle, la schiena ed il petto, ma non lo distoglie dai pensieri e non devia lo sguardo fisso nel vuoto.

“Perché l’hai fatto?”.

“Non lo so, ho seguito l’impulso”.

“La tua musica a memoria di te per sempre?”.

“No, la mia anima fusa nella roccia, se potessi entrarci anch’io”.

“Ci facciamo sempre più vicini”.

“Dove sei?”.

“Ancora non puoi vedermi, ma io potrei toccarti”.

“Esci, fatti vedere”.

“Non ancora e non qui”.

“Io mi fermo qui, sento la pace”.

“So lasciare al tempo il compito di completare i pensieri”.

I pranzi di Tommaso da sempre sono a base di verdure, pane, ortaggi, vino, frutta, ma ora, nella casa con l’orto di capperi viene colto dalla voglia di mangiare pesce.

“Pesce, si devo cibarmi anche di pesce. Lo catturerò io stesso nel mare, lo prenderò con le mani, pesci piccoli, alici soprattutto, ma se ci riesco anche aguglie e polpi, poi lo cucinerò sul fuoco, oppure lo mangerò crudo, come il vecchio pescivendolo lo ingoierò nel senso favorevole alle spine così scenderà veloce allo stomaco per diffondere energia a tutto il corpo”.

“Bravo devi arricchire la tua dieta e vedrai quanto il pesce ti riuscirà gradito”.

“Tutti i giorni voglio fare il bagno nel mare, d’estate come d’inverno, con l’acqua calda e con quella fredda, con le onde piccole come con quelle furiose, si tutti i giorni la mia pelle conoscerà il sale del mare, lo scoglio rugoso, i sassi levigati. In estate dopo mi asciugherò sulla spiaggia infuocata, d’inverno correrò nella casa che come una tana mi riparerà dal gelo”.

“Vedrai che ti farà bene, la tua pelle si ispessirà, il tuo sangue scorrerà veloce nel corpo rassodato, ti renderai insensibile al dolore, ma propenso al piacere del sole che cercherai e apprezzerai sempre come è giusto che sia e come è sempre stato, mai più lo maledirai come quando accaldato nella città afosa sudavi sotto la giacca pesante rinnegando in tal modo la nostra principale fonte di vita”.

“A che follia ero giunto”.

XIV

La gatta lasciata sul ramo di fico impaurita si acquatta, non vede il divano, le mura di casa e nemmeno Tommaso, riconosce il limone e un poco si calma, ma lo spazio e il mistero le trasmettono ansia. Ha lo sguardo stranito mentre scende per terra e sale le scale per conquistare il terrazzo. Sale sul muro e di li guarda il mare, che grande sorpresa per lo sperduto animale. Passano i giorni e pian piano si muove, ridiscende le scale per esplorare il giardino, seguendo l’istinto insegue gli insetti e poi le lucertole, diventa anche lei abbastanza crudele, ma il male che fa, ora che è parte della natura, potrebbe riceverlo, non è colpa sua né può cambiare il destino animale, per questo indurisce lo sguardo e si avventura nell’orto e di nuovo sul fico, poi ancora sul suolo raggiunge il carrubo ed osa sfidare l’asino soffiando feroce. Ma ci vuole altro tempo prima che lo sguardo diventi sicuro, ci vuole un inverno passato fra la casa ed il bosco dietro il giardino e dopo l’orto per farle capire che la sua vera natura è più vicina alla vita selvaggia che al tepore del letto disfatto, che la sua vita può portarla anche molto lontana e Tommaso è soltanto uno dei piacevoli angoli del mondo per un possibile ritorno da fare.    Allo sguardo già duro ora aggiunge un’idea e col solstizio di giugno salta dal muro, graffia il limone, calpesta per l’orto, soffia al somaro, ignora un uccello e scompare da gatta.

Non c’è bisogno di molto tempo perché Tommaso diventi il “vecchio pazzo della casa sulla scogliera” per la gente del vicino paese, ma poiché non è minaccioso, non appare furioso, non intralcia il lavoro dei pescatori, non manda via le greggi dei pastori, lascia brucare l’asino fin sotto il muro di casa, non scaccia i bambini, anche senza parlare saluta cortese chi gli passa vicino, insomma non ostacola ne danneggia in alcun modo il corso della vita dell’isola, nessuno pensa di prendere provvedimenti e grazie all’attitudine all’assuefazione di chi vive a più stretto contatto con la natura, dopo appena un anno è già considerato parte integrante della storia e del paesaggio del luogo.

Non se ne cura comunque Tommaso che non è li per cercare il contatto con gli esseri umani e all’imbrunire continua a pensare.

“Il corpo galleggia a che mi serve la barca? Non devo portare dei pesi ne caricare il pesce pescato, non devo occuparmi di altre persone e quello che ho è tutto con me racchiuso dentro la mia pelle robusta.  Brucerò la barca”.

Così Tommaso torna alla casa prende dal camino un tronco infiammato e corre alla spiaggia, cammina nell’acqua finché ci riesce quindi si stende sul dorso a nuotare con un braccio alzato a sorreggere il fuoco e giunto alla barca lo lascia cadere all’interno di essa. Passa del tempo ma attecchisce l’incendio e si leva la fiamma. Gira nuotando Tommaso intorno alla barca la guarda bruciare, il fumo che sale, il legname che scoppia, il rumore del fuoco, la vernice che arriccia, col cielo, la roccia, la casa, l’orto ed il bosco rischiarati dalle fiamme si vede ricadere la fuliggine sui sassi e sulle onde. Si immerge e la guarda da sotto il livello dell’acqua, la luce che illumina il fondo del mare, qualche pesce ne è attratto e risale dal buio, ma rifugge veloce. Tommaso vede la barca dividersi in due poi lentamente crollare sulla superficie del mare e spegnersi il legno ridotto ad un nero carbone. E’ tutto ciò che rimane, un gruppo di assi annerite e tarlate dal fuoco che spinte dalla corrente vanno ad incastrarsi fra gli scogli corrosi dai datteri ed ora scuri nella notte, sotto la casa.

XV

Tra la roccia e la ginestra, tra la pietra e la terra riarsa corre la lucertola e cresce la pianta del cappero. Tommaso ne ha un orto intero dietro la casa e poiché è questa la stagione propizia al formarsi dei boccioli, risale dalla spiaggia e  comincia la prima raccolta. Capperi da conservare sotto il sale preso dal mare e riporre in secchi asciutti sotto l’arco del terrazzo, da dove proverrà l’odore tanto gradito nelle giornate d’estate e dove si recherà per tutto l’anno a prendere il suo ingrediente preferito per accompagnare, assecondando le stagioni, pomodori, alici, insalata, zucca e cetrioli.

Così indaffarato è raggiunto dall’odore di salsedine per il mare agitato e mentre il sole caldo asciuga il legno antico degli alberi un canto di gallo si sovrappone all’ininterrotto frinire delle cicale.

Si ferma Tommaso per guardarsi intorno, scrutare il mare, la costa ed il cielo, per guardare se stesso e pensare a che cosa era ed ora è, a dov’era e dove è adesso. Per sentire, per la prima volta, che dubbi, ansie, malinconie, tristezze ed angosce lo stanno lasciando.

Con l’equinozio d’autunno ricompare la gatta. Non salta sul ramo di fico, non soffia al somaro che bruca, non graffia il limone, ma sale lenta le scale, raggiunge il terrazzo e li si sdraia sfinita, chissà dov’è stata. Ma ha la pancia gonfiata e se il limone, che non sa, continua soltanto farle dell’ombra, Tommaso capisce e raddoppia la razione d’alici. Ha portato altra vita con se e si appresta a riempirne la casa.

Trascorre intero settembre e con le prime piogge d’autunno partorisce la gatta. Era una ed ora sono in sette ed il cesto riposto vicino al camino in cucina è un groviglio di zampe, code, orecchie, occhi e baffi.  E se per i mici incomincia la vita per la gatta incomincia il lavoro, tra graffi, fughe e baruffe per fortuna fanno presto a svezzarsi, così che Tommaso può trascinare la cesta fuori di casa e finire di lavare di continuo il pavimento in cucina.

La gatta li cura e protegge, poi li sorveglia e gli insegna la caccia, quindi li spinge a percorrere il bosco e a non dare fastidio eccessivo, li lascia sempre più spesso da soli e ritrova il sonno sereno.

Infine li scruta e buon per loro che sul finir di dicembre siano già tutti partiti.

La casa è di nuovo tranquilla e la gatta ritrova il suo tempo, lo sguardo però non è quello di prima da duro e sicuro che era si è fatto paziente e distratto.

Pare che pensi, la gatta, e capire che se il terrazzo sul mare all’ombra del cresciuto limone è soltanto uno dei possibili angoli di mondo per un ritorno da fare è anche vero che non c’è poi tanta ragione di andare. In fondo ha conosciuto l’avventura e gli spazi infiniti, ha imparato a conquistare il suo cibo, incontrato i suoi simili, rinnovato e insegnato la vita.

Distesa serena sul muro del terrazzo al tiepido sole di una bella giornata invernale in prossimità del mare sembra proprio di capire che la gatta abbia deciso di godersi la vita, vicina a Tommaso, sotto al limone, finalmente felice. Cosicché stira il corpo, fa uscire e rientrare le unghie, cambia posizione, guarda lontano e quindi chiude gli occhi su di uno sguardo che si è fatto finalmente felino.

XVI

Pescatori sul mare, senza reti ne barche, ma armati di fiocine a bordo di canoe primitive.

Sono usciti dalla linea dell’orizzonte e si avvicinano scrutando la superficie dell’acqua. La prima, la seconda, la terza, fino a nove imbarcazioni che avanzano lentamente. Giunti vicino alla costa si affiancano e gli uomini iniziano ad osservare la spiaggia e le rocce. I capelli crespi e ammassati, la pelle dipinta con strisce di fango essiccato, il petto adorno di collane di ossa e conchiglie, il loro silenzio infonde terrore, il presagio di morte è diffuso nell’aria.

Tommaso li guarda ed ha paura, ma sa di non dover urlare, si muove circospetto fino alla grotta nel cui profondo trova la salvezza. Li, d’improvviso viene  raggiunto dalle urla dei pescatori, percepisce l’angoscia degli adulti ed il pianto dei cuccioli, movimenti concitati, furia assassina, tentativi di fuga, colpi sordi sui piccoli corpi impauriti, genitori impotenti, la strage è iniziata, in pochi sopravvivranno, il sangue imbratta la spiaggia ed il mare. Si nasconde nel profondo del buio, abbraccia se stesso per stringere il corpo e cercare di ridurre le proprie dimensioni nel tentativo impossibile di divenire invisibile, ma sente l’orrore e la tragedia e suda ed urla Tommaso, poi, disteso con la schiena sul letto tira calci e pugni nell’aria, grida forte scosso dal terrore finché di colpo si alza a sedere e si sveglia, il cuore batte veloce e l’ansia gli genera affanno.

“Che sogno è mai questo? Chi sono quegli uomini primitivi e chi uccidono?”.

“Calmati Tommaso, è tutto passato e non soltanto il tuo sogno”.

“Un pericolo incombe?”.

“Non più, per fortuna, ma la paura è rimasta scolpita nel tuo corpo e a tratti riemerge”.

“Prima no”.

“Ed ora si perché ti stai avvicinando al tuo vero essere e ne liberi la natura, con le sue paure ancestrali, ma per fortuna inutili. Presto conoscerai anche i suoi sentimenti e le gioie, soprattutto le gioie. Siamo sempre più vicini Tommaso, dopo questo sogno, vicinissimi”.

“Cercavano anche me quegli uomini”.

“Questa volta sei riuscito a scappare, non verranno mai più”.

Ancora scosso dal sogno per oggi evita il mare Tommaso.

“Un giorno senza sale non rovinerà la mia pelle”.

Esce di casa nel sole d’inverno e sale in collina nel bosco. La foglia di quercia sul terreno umido nasconde il muschio e devia il corso del filo d’erba.

La sua caduta dice al nocciolo che è tempo di fiorire, un anno da la mano all’altro cosicché senza intervallo, si chiude il cerchio della vita e non cala il vero inverno sulle sponde del mare.

L’aria mantenuta fresca dall’ombra dell’edera e del leccio, fa bene al pungitopo ed al fungo e il pettirosso che ticchetta  nei cespugli ricorda a Tommaso che è tutto qui il freddo di gennaio nel mediterraneo meridionale. Odore bellissimo, che da gioia immensa, è l’umido sul suolo, sui rami, sulla corteccia rugosa, sulla roccia affiorante, anche la terra vuole bere ogni tanto. Fiorisce il ciclamino fra le felci mentre in alto sul monte l’agrifoglio si gode la luce del sole nel sottobosco di carpini e castagni finalmente spogli di foglie.

“Raccoglierò della legna da ardere per cucinare i funghi che troverò, li mangerò accompagnandoli col vino, le castagne ed il pane perché anche quello che da la terra è bello. Riposerò, nel pomeriggio, dinanzi al fuoco del camino asciugandomi al suo calore, poi a sera berrò del vino passito. Ma io di chi sono figlio, del bosco o del mare?”.

“E’ il tuo ultimo dubbio, quando lo capirai ci incontreremo”.

“Dove?”.

“O nel cavo del tronco o nell’anfratto dello scoglio”.

“Ma allora tu sei l’altra parte di me, quella rinnegata e costretta a vivere nascosta?”.

“Continua la tua ricerca”.

Fra qualche pioggia e una schiarita, fra un po’ di sole ed un unico tocco di vero freddo passa la stagione invernale ed è già primavera.

Con la seconda metà di febbraio inizia per Tommaso l’impegno nella cura dei suoi alveari. Li ha sistemati dietro l’orto di capperi e prima del bosco con i tronchi di quercia a riparare dal vento le arnie. Pulisce il terreno, controlla la salute ed il numero della api, fonde più famiglie sfortunate e si prepara a dare casa ad altre ben fornite di operaie, riordina gli attrezzi e prepara i barattoli. La serenità sotto il sole di primavera lo ha finalmente raggiunto ed il sogno di violenze antiche subite non si è più presentato.

Passano le settimane. Guarda la terra ed il calore che emana, l’erba che nasce, i fiori nuovi e le foglie chiare, il pettirosso è partito ma al suo posto canta il fringuello tranquillo sui rami più alti, guarda il mare che oggi è più azzurro che mai, calmo come d’olio, col pescespada appena sotto la sua superficie ed il gabbiano che galleggia nell’acqua. L’ultimo dubbio deve ancora risolverlo, ma non sente né ansia né fretta perché entrambi gli elementi ora gli infondono gioia. Si gode il sole caldo sulla schiena mentre osserva le bottinatrici fare la spola fra i fiori e l’alveare, ruberà a loro un po’ di miele, ma non tanto da comprometterne le riserve invernali, e la riproduzione regolare, in cambio ha offerto ed offrirà cure ed attenzioni nei giorni di vento o di estrema siccità. E se la gatta riposa serena sdraiata sotto il sole della primavera inoltrata, se il limone si mostra sicuro e robusto nei suoi nuovi quattro metri e settanta, Tommaso per la prima volta è veramente felice anche perché a fine maggio, mentre nell’entroterra si raccoglie il pur prezioso miele di acacia, lui fra mare, sale, roccia, arbusti, sole, querce, luna, cicale, olivi, capre, grilli e pietre è riuscito a raccogliere e assaggiare dopo tanti anni, l’inafferrabile miele di ginestra. Ne farà conserve, lo spalmerà sul pane cotto con la legna nel forno di mattoni, ci  curerà la sua gola arrossata nelle mattine d’autunno, ma altro lo offrirà ai bambini curiosi che a volte si avvicinano alla casa. Lascerà barattoli ricolmi e chiusi col sughero sotto il muro del terrazzo perché vengano trovati dagli impauriti, silenziosi e furtivi visitatori, servirà a far capire loro che la sua solitudine non è violenza contro gli esseri umani, ma il frutto di un antico tormento del suo corpo e del suo essere che ora, forse, sotto una cascata intricata di anni e di capelli bianchi, stretto in una pelle dura e abbronzata da sembrare di cuoio, ricoperto di sale marino, con addosso l’odore della terra e del mare e sorretto da piedi tanto callosi da spezzare le spine del cardo come pure quelle del riccio di scoglio, sembra finalmente che si stia assopendo.

E’ felice Tommaso, si, è finalmente felice e per questo danza sul terreno asciutto della costa marina, ricoprendosi di polvere, batte i piedi  e le mani, si rotola sulla roccia emersa nell’orto di capperi all’ombra del fico d’india, saltella sulle gambe incurante di rompere qualche stelo di pianta, con le mani si tira i capelli poi le preme sulla pancia e si lascia cadere nel fieno dell’asino che si allontana infastidito, s’incuriosisce per questo la capra, ma lui la insegue veloce sul sentiero scosceso, fugge impaurito anche il coniglio selvatico mentre lui ride, ride e guarda il sole che rende luminoso il mare di un blu intenso che ora di nuovo l’invita a tuffarsi senza più paure.

Corre perciò Tommaso lungo la scogliera, con i piedi solleva la polvere e fa cadere i sassi, discende sulla spiaggia, raccoglie e tira dei ciottoli così da far volare tutti i gabbiani ancora intenti a dormire, quindi con fragore si tuffa nell’acqua fresca del mattino. Si immerge e si gira a guardare il sole da sotto il livello del mare, poi riemerge per battere le mani sulla parte superiore dell’acqua e si lascia sprofondare soffiando via l’aria dai polmoni, cammina cosi per un poco sul fondo pietroso prende una pietra e riemerge di scatto la lancia lontano e apre la bocca per una grossa boccata di ossigeno, ridiscende sul fondo ed insegue una triglia, quindi nuota sentendo sul petto il contatto con le alghe allungate, riemerge, respira, si reimmerge, raggiunge lo scoglio e ci sale per poi lasciarsi scivolare col petto sulle alghe di nuovo nell’acqua rigandole tutte con le unghie dei piedi, ora si ferma per restare sospeso sulla superficie a vedere il sole da dietro le palpebre chiuse, compie un giro su se stesso ed è di nuovo con la faccia sottacqua, ridiscende piegando il busto, allarga a richiude le braccia per procurarsi una spinta veloce, fa spruzzi coi piedi, va giù e stacca un riccio dalla roccia sommersa, lo scaglia lontano per vederlo affondare oscillando nel mare, lo raggiunge di nuovo e lo fa rotolare, poi si distrae ed insegue un’aguglia, ma vede un’ostrica e si appresta a raccoglierla, scorge di li una cernia e si spinge nel fondo più buio per costringerla a nascondersi sotto la roccia sporgente, qui vede una stella di mare, una murena, un sarago ed una sogliola, più in basso, nascosta sul fondo sabbioso fra le rocce sommerse è tentato di scendere ancora di più per poterla afferrare, ma è tempo di risalire per una boccata di aria, emerge così, veloce, con la pelle compressa dalla  forte pressione ed i capelli schiacciati sul capo, va diritto verso la luce del sole, raggiunge la superficie e fra tante gocce di mare butta via l’aria vecchia per una boccata di vita nuova e, dopo tanto tempo, pur non avendolo deciso, un verso gli esce dal petto, è nuovo e mai udito prima, viene dal profondo del corpo, ha le radici nel cuore, trova la forza nei muscoli tesi  e fuoriesce selvaggio, ma piano, pacato, sereno, per esprimere la gioia del vivere, per parlare dell’unione fra il corpo ed i pensieri, per dire dell’armonia fra quello che si è e quello che si vuole essere, per dimostrare che è possibile far vivere insieme intelletto e passioni, che non c’è più malinconia o voglia di fuga, ma finalmente presenza nel proprio elemento.

Un verso semplice, pochi suoni ripetuti, per far sentire al mare, ai pesci, al vento, alla terra, alla roccia, alle querce ed agli uccelli, la sua esistenza.

Non è più un estraneo Tommaso, ma fa parte di questo mondo che ora può toccare, scombinare, mescolare, infastidire, curare, perché ne è parte integrante, il mondo può prenderselo così come lui può prendersi tutto quanto la natura gli offre.

Dapprima sorpreso ora ripete sicuro il suo verso e ridiscende di nuovo nel profondo del mare e riemerge di nuovo nella luce dell’aria a dire che ora anche lui e nel centro della vita.

E’ felice Tommaso, questa volta è davvero felice.

 

 

 

 

 

XVII

“Amo il mare quando è calmo d’estate, fermo senza onde né brezza che disegni la più piccola increspatura nella sua superficie. Immobile e silenzioso non si infrange contro lo scoglio né risale lungo la spiaggia, è trasparente e limpido e liscio come l’olio lascia intravedere il fondale. In un mare così viene la voglia di perdersi. Viene voglia di berlo il mare che poggia sui sassi calcarei e cinque metri appaiono meno di uno su di un fondo di roccia ricoperta di alghe e di ricci che fa paura a tuffarsi. Si vedono i pesci di scoglio, il pomodoro di mare, il granchio e la patella e sotto il sole del mattino regna una calma che si trasforma nella certezza dell’impossibilità di un evento violento. Lentamente ci si può immergere nel mare che gocciola intorno al corpo mentre riemerge, come acqua di ruscello intorno al sasso, si può nuotare, rigirarsi sulla schiena, ridiscendere sul fondo, risalire a respirare, salire sulla spiaggia a lasciarsi asciugare dai raggi di sole ora più alti sull’orizzonte, e se i gabbiani sono già in alto mare non è detto che si debba per forza andare tutti a pescare. Quel poco di grasso intorno alla vita non ci farà morire di fame se per un giorno non andiamo a mangiare”.

“Tommaso il tuo viaggio sta per terminare”.

“Dove sei?”.

“Vicino, oggi o domani ci incontreremo”.

“Ora sono felice”.

“Perciò finalmente riuscirai a vedermi oltre a sentirmi”.

“Vuoi dire che mi sei sempre stato vicino?”.

“Si, ma con il pensiero tu eri lontano, ora non più”.

“Chi sei?”.

“La tua vera natura”.

“Io sono un uomo”.

“Questo hai creduto”.

“Ah, ora scherzi, allora ti dico che ho vissuto da uomo”.

“E’ questa la causa del tuo tormento”.

“Come avrei potuto evitarlo”.

“Riconoscendoti”.

“E come avrei potuto farlo?”.

“Come alla fine hai fatto, da vecchio, credendoti pazzo”.

“No, non sono pazzo, ora lo so”.

“Ora ti resta da capire che non sei un uomo”.

“Ma che dici?”.

“Quel poco che ancora ci tiene lontani”.

“E chi sono, allora?”.

“Sai che non posso essere io a dirtelo”.

“Ma perché?”.

“Di noi stessi comprendiamo soltanto quello che accettiamo”.

“Quando accetterò e scoprirò il mio essere”.

“I tuoi discorsi, la vita che fai, mi dicono che sei pronto”.

“Voglio saperlo”.

“Sento che potrebbe essere anche domani”.

“Aspetterò”.

“Stasera innaffia il limone e dai da mangiare alla gatta, ti vogliono bene”.

“Lo so ed anch’io gliene voglio”.

“A domani Tommaso”.

Scende la notte d’estate sulla casa dall’orto di capperi, dormono l’asino e l’ape sulla terra asciugata dal sole, dormono, la conchiglia sul fondo sabbioso e la cernia sotto il sasso marino.

Non così fa Tommaso seduto sul terrazzo con la pelle avvolta dalla brezza che viene dal bosco e si spinge nel mare aperto confondendo gli odori dei due elementi, non dorme, ma pensa, ricorda, divaga, riprende un pensiero e lo perde di nuovo per un volo di falena che gli passa vicino, ricomincia a guardare il mare bianco di luna, il suo corpo si alza ed inizia a volare sfiorando la superficie d’acqua, i pensieri, liberi, escono dalla testa e si mettono a cavallo sulla sua schiena, per dirgli di correre fra il cielo ed il mare, sotto le stelle che cadono, dentro la notte, avvolto dall’aria, illuminato dal raggio di luce, attraversato dagli odori, rinfrescato dalla brezza, rallegrato dalla gioia, poi ritorna sul terrazzo di casa e di li sulla spiaggia ad accendere un fuoco che si veda fino alle isole più lontane, che lo veda anche il mare, che lo sappia anche il mondo, che lo dica anche il cielo, che lui è felice. Tommaso danza intorno al fuoco ripetendo in mente la sua musica e finalmente sopraffatto dal sonno si ferma a dormire sui sassi, il fuoco lentamente si spegne ai primi chiarori del nuovo giorno.

Avverte qualcosa di diverso Tommaso al suo risveglio, sarà la nottata passata all’aperto, oppure la stanchezza per le emozioni vissute, ma il suo corpo appare leggermente nervoso, un poco agitato. Poi ricorda la promessa ricevuta di un incontro quest’oggi e ritorna sereno, felicemente impaziente.

Si mette a sedere sulle pietre rotonde e come tanti anni prima si guarda le gambe, le braccia l’intero suo corpo che ha curato e guidato per una lunghissima vita.

“Potevo dargli di più?”

E’ la strana domanda che si formula nella mente.

“Potevo condurlo più lontano? verso traguardi migliori? a conoscenze superiori? Oppure dovevo concedergli l’ozio?”.

Si guarda ancora e riprende:

“Ma poi: fino a che punto siamo responsabili di noi stessi? abbiamo veramente un obbligo con la vita che ci è data? Siamo tenuti a perseguire una meta o è la nostra stessa esistenza lo scopo?”.

Domande inutili per una mente vissuta, quindi si alza e risale verso la casa, innaffia il limone anche se non ha più bisogno delle sue cure e ne guarda il tronco robusto ed i rami, con le foglie dal bel colore verde e pieni di frutti, che ormai sovrastano il terrazzo, da un lato e creano, dall’altro, un bel cerchio di ombra sul terreno sassoso dove l’asino del contadino ha deciso di fare la sua dimora.

Ha sensazioni diverse quest’oggi e chissà perché chiude la finestra dell’unica camera della casa dove c’è il letto ed una sedia impagliata per comodino oltre ad un tavolo mai utilizzato, va poi in cucina e ci trova la gatta che lo saluta strusciandosi intorno alle gambe con la coda alzata, le dà da mangiare tutte le sue alici ed un poco di pane e le olive ed i capperi li getta alla capra. Poi chiude anche la finestra di cucina, la porta di casa e raggiunge l’orto a curare le giovani piante di cetriolo e pomodoro, uno sguardo all’orto di capperi e alle arnie già ricche di api al lavoro. Nota i fiori della ginestra e alla mente riaffiorano ricordi lontanissimi di altre colline ed altre stagioni, di altre persone e di altre storie un tempo intrecciate alla sua ed ora finite o troppo lontane in luoghi e in tempi diversi .

“La natura si riprende tutto anche le nostre storie per amalgamarle con la materia, senza memoria finiranno? oppure sopravvivranno nostro malgrado? esiste un approdo per le storie concluse? un tratto di costa, una radura nel bosco dove ritrovare le storie già scritte?”.

Ancora domande inutili per una vita trascorsa. Guarda il bosco e poi di nuovo impaziente per l’incontro promessogli ridiscende sul mare per la sua nuotata quotidiana.

Il cuore batte più forte ed il respiro è frequente, le gambe seppur forti sono nervose e le braccia mandano al cervello segnali della loro presenza, sembra che tutto il corpo, questa volta non solo il pensiero, abbia deciso che oggi debba accadere qualcosa di nuovo, di importante, di irreversibile.

Raggiunge l’acqua di mare e come sempre si tuffa veloce. Scorre l’acqua intorno al corpo passando per prima fra i capelli bianchi e arricciati dalla noncuranza e poi scivola sulla pelle dura ed abbronzata delle spalle, del petto, anch’esso imbiancato, e delle gambe fino ai piedi che per ultimi danno l’ulteriore spinta per proseguire il percorso subacqueo.

Oggi ha molti anni Tommaso.

Da quando viveva in città molti anni sono passati, alcuni li ha vissuti nella villa in collina, ma molti di più li ha trascorsi qui, nella casa con l’orto di capperi, perciò ora è vecchio, vigoroso, ma vecchio e di questo ne è fiero.

“La precarietà di una vita da vivere è forse meglio della certezza di una storia lunga e già scritta? non è forse il pittore più felice mentre rigira fra le mani il suo capolavoro finito che quando toccò, pieno di dubbi, per la prima volta con il pennello la tela?”

Pensa Tommaso e nuota e sono ancora domande inutili quelle che gli vengono, inutili per un vecchio solo nel mare.

Si immerge di nuovo e raggiunge il suo scoglio dove sale e si distende ad asciugarsi al sole fresco del mattino. Chiude gli occhi, sente il corpo rilassarsi aderendo bagnato alla roccia calcarea calda, sta comodo e respira forte alzando ed abbassando vistosamente il petto per l’affanno della nuotata, quindi seguendo un inaspettato impulso si sfila anche l’ultimo brandello di stoffa che teneva a nascondere i fianchi e si mostra ora interamente nudo.

“Perché in tanti anni ho continuato a coprirmi e perché solo oggi mi libero di quest’ultimo segno di appartenenza all’umanità?”.

Questa non è una domanda inutile ed aspetta una risposta, ma Tommaso, steso sullo scoglio avverte un leggero senso di sonno cosicché rinuncia anche all’ultima lieve tensione dei muscoli e il corpo si assesta ancor meglio sulla parete rocciosa con le braccia pendenti e la sinistra dal gomito in giù immersa nell’acqua. Un onda lo bagna ma non lo scuote, trascina soltanto via il pezzo di stoffa, ora Tommaso è veramente solo perché anche l’ultimo segno dell’esistenza umana è andato perduto.

“Sono nato più di cent’anni fa ma ne ricordo soltanto novantasette, dei primi tre o quattro non ne o memoria, ho vissuto e non so che ho fatto, ho pensato e non so a chi e a che, tre anni senza riscontro, potrebbero essermene accadute di cose belle e di cose brutte e non le so. Conosco tutte le altre ed oggi, nonostante tutto, non riuscirei a rinunciare a nessuna di loro, anche i momenti infelici fanno parte di me, sono serviti a modellare il mio corpo e con essi, insieme agli attimi felici, o costruito la mia storia.

Come dell’arco della giornata non è possibile dire quale sia l’ora più bella, così non è possibile dire di amare un età più di un’altra. Tutte le ho vissute, le ore del mattino fin dall’alba con il sole fresco che illumina l’aria tersa e si riflette nel mare e sulle foglie, allora è bello scrollarsi di dosso il torpore del sonno e bere e odorare e gustare i sapori del nuovo giorno e notare una gemma nuova sulla pianta o un’altra vita che nasce e si fa strada nel mondo ed affiancarsi ad essa. E’ bella l’ora del pranzo, quando il fumo del piatto caldo si diffonde nell’aria umida della parte in ombra della casa ed i pensieri si formulano con più precisione in una mente più calma. Alla notte con le stelle che cadono nel cielo ed i grilli che invitano al sonno, no, non saprei rinunciare, perché è bellissimo assecondare il bisogno di riposo per una giornata trascorsa proficua.

Si può dire che una stagione dell’anno sia migliore dell’altra? che la sera sia più bella in autunno che in primavera per rasserenare il proprio animo? e che un pomeriggio assolato d’estate sia più bello di quello trascorso accanto al fuoco nel buoi freddo dell’inverno per ripensare al destino del proprio corpo?

Per cento volte ho girato intorno al sole, ne ho conosciuto le diverse inclinazioni del raggio, più volte ho visto eclissi e comete e il mutare del campo magnetico, ho conosciuto la terra, ho tremato con essa alla scossa di terremoto, ho visto cadere le rocce dalla sommità delle montagne e l’onda gigantesca del mare ricoprire la prua della nave e l’acqua del fiume inondare i campi, ho risalito il fianco sabbioso del vulcano e visto l’esplosione rossa di lava e lapilli, il fiume che nasce dal ghiacciaio e la lava che sgorga dal cratere, la valanga che spezza gli abeti, ho visto la saetta del lampo e ne ho atteso il rombo del tuono. Per cento volte ho conosciuto le facce del sole, ho ascoltato il verso della natura, ho imparato a distinguere il suo grido di gioia da quello del dolore, la pace dalla lotta, il sentimento di amicizia da quello dell’odio, ho udito l’ululato del vento, ho sentito il sangue percorrere le vene, ho avvertito la paura degli esseri mortali. Per cento volte cento e cento volte ancora cento ho aperto gli occhi sul sole e li ho chiusi sulle stelle portandomi dentro l’immagine completa della vita. Nella mia testa è entrato il mondo intero”.

Come l’animale sepolto nel limo, lentamente, nel corso dei millenni, per la compressione si amalgama alla materia e attraversato da questa, si trasforma in fossile, così la mente di un vecchio, percorsa dai pensieri di un’intera esistenza, muta in roccia. Entra l’esperienza attraverso gli occhi ed i suoni, ne permea le parti mortali e le trasforma in duro calcare. L’effimera cellula diviene scoglio e si fonde il pensiero nella materia. Allora non vale più la parola né il giudizio, ma solo il sentimento che pietrifica e insieme alla vita si fa saldo come mattone.

Ad occhi chiusi Tommaso resta adagiato vicino al mare, la sensazione di torpore permane, d’improvviso al braccio che pende nell’acqua avverte una stretta di punte acute, forte e sicura, ma al tempo stesso delicata, come soltanto i cani di grossa taglia sanno fare quando vogliono tenere qualcuno che amano, lento gira la testa ed apre gli occhi e incredulo pensa:

“Una foca mi ha preso per il braccio”.

“Sono io, Tommaso”.

“Come? tu? una foca?”.

“Non solo io, anche tu lo sei, puoi vedermi ora perché finalmente puoi vedere te stesso. Guardati ora”.

Così fa e al posto del petto, delle gambe, delle braccia vede un corpo rotondo di foca monaca.

“Si, una foca ecco chi sono, ora mi riconosco, i miei desideri, la mia inquietudine, per una vita ho indossato un corpo non mio”.

“Anche nella tua vita c’è il vuoto dei primi anni, vivesti e le prime esperienze ti formarono, ma non ne hai coscienza. Tu fosti catturato da pescatori venuti dal mare armati di lancia e tatuati col fango, strappato alla tua famiglia in una caccia feroce fosti portato lontano a vivere da uomo, ma non lo sei mai diventato

Però ora basta con le parole e le domande, le spiegazioni, i dubbi, le incertezze e le tristezze, basta con la malinconia, il rancore e le delusioni, basta con le riflessioni sulla vita e sull’essere, sono cose da uomini, ora vieni con me è tempo di andare al largo a pescare insieme a tutti i tuoi cari che non vedi da anni insieme ai nuovi che verranno, è tempo di incontrare l’origine dei concetti, è tempo di raggiungere la materia, quella solida come quella liquida, la materia che ci accoglie e ci rigenera, dove entrano le nostre storie e si riformulano i pensieri, è tempo per te finalmente  di confondersi con la natura, vieni Tommaso entra nell’acqua”.

Prima di andare alza lo sguardo Tommaso e vede la casa e affianco alla casa il limone e sopra il parapetto del terrazzo la gatta, lo stanno a guardare mentre scivola in mare.

“Io vado ma non è un addio, tornerò a nuotare in questo mare a chiedere di voi, anche se da ora già so che, come me, siete felici perché immersi nel vostro ambiente”.

Ha vissuto a lungo Tommaso e nel corso della sua vita la gente ha detto tante cose di lui, lo hanno giudicato pazzo e non era vero, è sembrato furioso e pericoloso, e neanche questo era vero, lo hanno creduto eremita, ma non lo è mai stato, lo hanno costretto a fare cose che non avrebbe voluto fare e a dire cose inutili. Quando i pescatori dell’isola mediterranea troveranno il suo corpo nudo sullo scoglio sotto la casa pitturata a calce lo raccoglieranno, lo adageranno, avvolto in pezzi di rete per cercare di nasconderne il corpo, sulla prua legnosa della barca e racconteranno alla gente, attraccando nel porto, che al vecchio matto della scogliera non ha retto più il cuore.

Ma se solo avessero alzato lo sguardo avrebbero trovato, nello sguardo felice di una gatta e in un limone di cinque metri e sessanta, il significato vero di una catena di pensieri, chiamata vita.

FINE