Storie di atomi e di reagenti

Ad uno splendido caso clinico

Archeologia chimica. Nella memoria i giorni si susseguono in una confusa stratificazione, laddove è impossibile distinguere quello che è stato da quello che sarà…

Il principe cerca moglie. “C’era una volta un re che aveva numerosi e grandi possedimenti. Questo re aveva un figlio che visse per tanti anni lontano dal Regno e senza sapere dell’eredità che un giorno lo avrebbe atteso. Gli anni passarono: il re presto si ammalò e morì: il principe, intanto, continuava ad ignorare la propria identità”.

Le parole mettono le ali, nel vento che scuote il telo del bar: il sole rende paradossale questa mattina di novembre. Le ricchezze che si perdono nel fumo che sale. Caratteri e psicologie incrociate a confronto lassù, sul filo che tende lo sforzo immane di conciliare ceci e ricotta.

Ignari cani, sordi ai richiami umani, danzano vicino a noi. Emanazioni d’amore frenate da codici comportamentali. I tuoi capelli perduti nelle mie fantasie e tu, labbra mutevoli, occhi nascosti da complici lenti, babaglio confuso da rinchiudere in una valigia, per portarti dovunque.

E racconti di un principe che scoprirà tesori già suoi. Storie che scorrono in mezzo a noi, tra un succo d’ananas ed un caffé. Ti alzi e hai già deciso, vincitori e vinti: io sprofondo tra i braccioli, distratto dalla paura di perderti e la gioia di averti.

Dio che tempo! “Poteva essere una strage. Panico in città. Il ciclone megagalattico ha soffiato senza frontiere. La follia rischia di non fermarsi. Ma la classe operaia non si arrende”. Firmato me, gravemente affetto da deformazione professionale.

Ritagli da titoli di giornale affissi sulla tua stanza a mostrare che sai colpire, che penetri, che vivi… e sei sola. Non capisco. O forse sì: la fragilità nella forza che hai di caricare e di dare energia intorno. E te ne ritrovi priva, prigioniera.

L’apparenza. Perle di silenzio cadono tra di noi: si sciolgono appena raggiungono il fondo e diventano gesti, sorrisi, suoni che danno piacere.

La mia legnosità, degna soltanto di un ulivo imbiancato in inverno.

La tua maniera di cantare, stonata, i brani di quel cantautore che sta costruendo – per noi – un’altra storia. Tra il mellifluo e l’aggraziato accompagni parabole orbitanti con voci che non so descrivere, ma che basterebbero come unico ricordo di te.

Ridi e non smetti. Camerieri che scorrono in mezzo ai tavoli, anonimi fiumi e discreti.

E i capelli bagnati, trucioli d’oro che si calano davanti ai tuoi occhi. La mia mano sulla tua spalla: siamo felici. C’è da preoccuparsi, ma stasera veramente ci basta così poco.

La strada è lavata da una pioggia adesso insistente: il parabrezza appannato ti crea qualche problema, come la birra sorsata in pizzeria, tra demenzialità e confidenze. E ogni volta che ti vedo così piccola, diventi sempre più grande.

Poi vai via. Le ultime parole vuote di senso e di suoni che si rincorrono in una distanza che stasera mi sembra incolmabile. E cadere nelle braccia del sonno, senza sapere se sei triste o felice, diventa desolante squallore per me.

Mi sento povero dentro… la favola che raccontavi era soltanto una favola.

Il gioco del lotto. In ufficio di fronte al personal computer. Mattinata di un giovedì triste. La luce verde del menù principale, il ronzio dell’elaboratore. Scelgo un nome-file che non dia adito ai sospetti di qualche ficcanaso mosso dalla pia intenzione di leggere cosa ci sia scritto in un file di nome “clelia”: sebbene sia proprio con il tuo nome che vorrei contrassegnarlo. E invece no. Apro il file dal nome “lotto” su cui erano registrati gli aggiornamenti delle estrazioni a beneficio del vecchio direttore: li cancello e scrivo di te e di quello che mi pare.

Ti ho chiamato alle 8 di questa mattina: tua sorella mi dice che sei già andata via. E forse è stupido chiederle a che ora poter richiamare. La mattina a studiare da Grazia, il turno di pomeriggio a scuola, probabilmente avrai anche lezione all’Istituto. Okay, ho capito… e come dice non so chi: “Anche per oggi non si vola”.

Oltretutto mi è saltato anche l’impegno che avevo a mezzogiorno: una cliente voleva consigli per un piccolo investimento, ma all’ultimo istante ci ha ripensato. Tu mi chiederai: “E chi se ne importa?”. E hai ragione. Non posso fare altro che unirmi a te, condividendo la tua stessa perplessità.

Lo sciroppo che mi hai portato per mandare a quel paese la tosse mi sta proprio di fronte, accanto al computer. Ancora un po’ e comincerò a parlare con la confezione. “Calmante della tosse espettorante… flacone di 200 grammi”: come una strofa indiana da ripetere al ritmo di un mantra. E leggo divertito: “Bronchenolo Midy”. “Midy”: vuoi vedere che pure l’inventore del Bronchenolo è stato nel Midy Pirenees (chissà se si scrive proprio così) dove ho passato un’estate serena. E chi può dire se non abbia raggiunto anche lui Lavelanet, tornante dopo tornante, a bordo di un insicuro quanto traballante pulmino, guidato da un autista mezzo ubriaco, col dirupo ad una spanna.

Mi chiami e ti sento lontana. Forse sta diventando tutto inutile. Probabilmente ci manca il brio che io non ho, la razionalità che tu non hai, vili prigionieri. O forse la verità è che mi manchi.

L’ora ics. Come rugiada, piccole gocce d’amore condensato appannano i vetri dell’auto. Tu versi parole e schermi illusori: è inutile che parli, perché non ti credo. E diventano pian piano degni di fede solo i tuoi occhi, le mani, le labbra, i gesti che compi.

Schiere di omini, piccoli piccoli, danzano e passano lì fuori.

Viviamo vite parallele accarezzate dalla piacevole tensione che viaggia verso l’ora ics, il momento in cui bruciamo le attese e le voglie di una giornata intera: le labbra si cercano e s’incontrano e si posano, umide… e ho sempre più voglia di te.

Le auto riflettono luci indiscrete, mentre giochiamo al grande gioco. Il futuro è un’equazione a tre incognite: il solo dato certo è che tu ci sia.

Il piccolo chimico. Molecole di vita si perdono negli spazi biondi dei tuoi capelli per ritrovarsi a metà strada tra guancia e collo, proprio al di sotto dell’orecchino dalla forma di stella: quello che preferisco. Una sintesi chimica imperfetta tra atomi di cloro e cristalli di cobalto: l’ossigeno lo teniamo per noi e molecole di idrogeno danno origine ad un acido anomalo, cloruro di cobalto. Due corpi occupati da noi… noi che siamo di più dell’uno e dell’altro messi assieme.

Scorri tra le braccia come un fiume in piena, acqua che non disseta mai, e vien sempre voglia di berti, tutta d’un fiato, mentre trattengo il respiro per inghiottire di te sorsate più lunghe e più intense.

Nell’astro di Couiza. E quanto è lontana Couiza, quando insieme all’amico Luigi, persi nella leggenda del Graal e sognanti d’essere parte della nobile schiera dei cavalieri Templari, consumavamo la nostra cena di fronte al sole che moriva. Addentavamo del formaggio e la nostra sete la spegnevamo con un Corbieres, forse non doc ma che portava calore e autentica gaiezza.

Tu non c’eri.

Oggi ti rivedo come immagine speculare di quel sole… come se fossi rimasta nascosta per anni e poi fossi comparsa, all’improvviso, al di qua dell’astro.

La scatola di latta. Il mare lascia volare le sue chiome davanti a noi che rimaniamo abbracciati indifferenti alle nubi dense e ai fulmini che squarciano il cielo cupo. Flash di reflex intente, indiscrete, a ritrarre le nostre emanazioni.

Parli di noi e costringi il nostro futuro in una scatola di latta che adesso non è grande abbastanza e che domani tutto potrà contenere tranne noi. Noi schegge impazzite, provenienti dal cosmo, a lui ritorniamo.

Direttrici divergenti.

Spazi opposti. Non credo paralleli.

E ti lasci cullare nell’alveo di sogni ambigui. Le vele si alzano al vento di uno stato d’animo che non smette di tornare. Gli elementi si confondono in un mosaico in cui è impossibile individuare ad una ad una le tessere, e dove si riflette l’immagine di noi: acqua, fuoco, aria e terra, insieme.

Due nuove compagne. Andromaca e Cassandra mi fanno compagnia, boccheggiando in un barattolo di vetro che forse non è il migliore acquario esistente sulla faccia della terra. E’ strano come ci si possa sentire meno soli quando ci sono due pesciolini rossi, un tantino desquamati, che si tengono stretti sul cristallino confine che li separa dal mondo nel quale non possono vivere. E chissà come deve sembrare loro strana la mia figura, ingigantita dagli scherzi ottici che gioca il vetro. Andromaca è quella lì… la vedi? Quella con la coda dalla forma più allungata. Mi chiama per nome e mi fa gli occhi dolci. Cassandra, invece, mi dà del lei e mi dice tutto quello che ho sbagliato: mi riprende se ho dimenticato qualcosa (il che succede spesso) e me ne fa una colpa se non sono di buona compagnia.

Dentro di te. I giorni passano, in attesa di un segnale che lasci partire reazioni a catena. Mare in tempesta. Schiena di baci, arrendi. E fermi trattieni i capelli, dorati, fini, leggeri. D’improvviso ti volti e ritorni alla trama del gioco che vuoi costruire.

L’emanazione diventa piacere.

Nel buio la tua pelle bianca.

Due palmi di mani stretti con forza uno contro l’altro.

Entro. Ritorno bambino.

Mi spingo dentro e il raggiungere il fondo non mi dà lo stesso piacere di rimanere semplicemente avvinghiato a te. Un incastro che ci unisce come le tessere con cui da bambino passavo le ore, nel gioco delle costruzioni.

Mi fermo, non esco, non voglio. Rimango prigioniero di te…

Intanto Andromaca e Cassandra non ci sono più. E mi ritrovo di nuovo solo ad alternare il file “lotto” con la lettura dei giornali, il programma che predispone il gioco degli scacchi con risposte approssimative a telefonate di lavoro.

Scacco matto. Riprendo a scrivere in una mattina di inizio dicembre, quando probabilmente è finito tutto. MATE, YOU WIN: decreta il computer per dire che la partita a scacchi l’hai vinta tu. Complimenti. Probabilmente la seduzione è finita e a noi non resta che andare in pace. Mossa dopo mossa, hai guadagnato il centro della scacchiera. Io ho “aperto” alla francese, puntando più all’attacco sulle ali. Al principio ho tenuto, poi mi hai avvolto con una manovra che non ha lasciato respiro, stringendomi progressivamente gli spazi, mentre ancora accarezzavo l’idea che la mia regina divorasse la torre al fianco della quale ti eri arroccata. E ripeto sempre lo stesso errore. Confido troppo nelle indiscusse grandi possibilità di un pezzo che, poi, alla fine viene sovraccaricato di pesi e di responsabilità. Non ricordo come, non ricordo quando: hai lasciato che la mia regina scorazzasse per la scacchiera, mentre scardinavi poco alla volta lo schieramento tattico della mia difesa. Okay, è matto. Hai vinto.

Cartoncino arancione: imprevisti. Avevo un appuntamento con la storia quel mattino. Sereno nel volto, candido nell’aspetto, entravo in quel salone con le scarpe nuove… Avevo un appuntamento col mio lavoro. Almeno così credevo. Ma seduta, quasi in fondo, c’eri tu: capelli, occhi e tutto da guardare. E io guardavo, senza accorgermi che il mio lavoro si allontanava, che il mio mondo di congetture e di schemi andava a farsi benedire.

Distinti saluti. Oggi si respira aria di addio. Io rileggo questa storia e mi accorgo che è in giorni come questi che ti sento più mia. E ti ringrazio per avermi cercato, per avermi tollerato, per avermi voluto. Perdonami per tutte quelle volte in cui non ti ho cercato, per quando non ti ho tollerato e per i momenti in cui non t’ho voluto.

Ricordo di quando, appena conosciuti, ti dissi che questa nostra storia sarebbe finita lo stesso giorno in cui il mio accendino si fosse scaricato. E oggi che il gas è quasi del tutto evaporato lascio che il mare raccolga il nostro destino.

E’ vero: non ci siamo mai innamorati l’uno dell’altra, ma lascia che ti dica per una volta sola “ciao, amore”: è stato bello averti incontrato, ed è bello che un dio, se esiste, ti abbia voluto. E forse soltanto adesso scopro che il nostro rapporto, nella sua “anormalità”, aveva un senso preciso, inequivocabile.

Dissociazioni molecolari dentro e sopra di noi. Atomi di cloruro e cristalli di cobalto in cerca di altri e più sintomatici reagenti. E se ti ho dato molto di meno di quanto tu non meritassi rimanga sepolta nella tua memoria la convinzione che io non abbia potuto dare di più di quanto non sia capace. Ma questo tu lo sai.

Ciao, amore: ci incontreremo in un’altra vita!

Ad ognuno il suo tempo. Domani, il primo giorno che tu non ci sarai. L’orologio riprenderà a battere il suo tempo, ripartendo dalla tarda mattinata di quel giovedì d’ottobre. Giornate, simili a quelle di due mesi fa, si succederanno con la consueta alternanza di umori.

Una visita a Raffaele per prendere i giornali, colazione-lampo al bar all’angolo dove Federico, al di là del bancone, impreca contro la vita e la miseria, il saluto delle portinaie, la lettura dei giornali e poi il lavoro, fatto di lunghe attese, di dispute con la clientela, di discussioni con i superiori, di calcoli astrusi al computer, di sigarette, di caffé e di bocconi amari.

Tu tornerai laddove stavi prima, dall’altra parte dell’astro di Couiza, e io starò lì di fronte a mangiare formaggio e a bere Corbieres col sedere sulla nuda terra, aspettando che il sole tramonti per rinascere ancora.

La luce ora si fa fioca.

In un gioco di schermi e di razionalizzazioni ci mancheremo, oltre questi tre punti di sospensione…

(dicembre 1988)